Il suicidio: un grave problema sociale.
Mi sono sentito percorrere da una scossa fredda. Il suicidio rimane dentro di me e forse anche nella percezione comune, il gesto inaccettabile, lo scandalo supremo. Il Diritto lo ha giudicato per molto tempo un reato e la religione lo considera un peccato, un atto di ribellione e apostasia. I suicidi non hanno diritto né alla pietà umana né a quella di Dio e per loro non ci sono i sacramenti. La società li rifiuta, quasi fossero l’aberrazione per eccellenza.
Eppure le ricerche epidemiologiche hanno rilevato che nei paesi industrializzati il suicidio è tra le prime dieci cause di morte. E’ capitato anche a me quando lavoravo nelle Istituzioni di conoscere ricoverati che sfuggivano ad ogni controllo e prevenzione e “la finivano”. Anche oggi, ogni tanto in studio avverto il “demone fagocitante e muto” che pulsa nella mente dei miei pazienti. Avete letto la lettera di Emanuele di 12 anni sul mio guestbook? Ne ricevo decine ogni mese e, non sono così sicuro come lo era Goethe quando scriveva “I dolori del giovane Werther”: “Certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa”. Sento che questi ragazzi non scelgano ma sono vittime. Vittime dei loro fantasmi e di una società che non riesce più ad arginare, stemperare ed esorcizzare, i diavoli che la popolano.
La clinica ci dice che da un punto di vista psicodinamico molti disturbi psichiatrici possono culminare nel tragico esito del suicidio e vi è accordo nell’interpretare il suicidio come inesorabilmente associato ai disturbi dell’affettività. Smith (1988) mise a punto uno schema di sintomi e comportamenti predittivi al suicidio:
- Incapacità a rinunciare a desideri infantili strutturati in comportamenti di dipendenza.
- Una visione ambivalente della morte.
- Aspettative verso se stessi eccessivamente alte.
- Ipercontrollo dell’affettività in particolare dell’aggressività-
Freud stesso ebbe rispetto al suicidio due posizioni teoriche diverse. Nella prima, all’ inizio del ‘900, pensava che il suicida arrivasse ad un atto dissociativo e affermò che l’Io può uccidersi solamente trattando se stesso come se fosse un oggetto. Era giunto così alla conclusione che il suicidio fosse uno spostamento di impulsi omicidi. In seguito ridefinì il suicidio come una vittimizzazione dell’Io da parte di un Super-Io sadico.
I clinici hanno allargato le ipotesi psicodinamiche del suicidio e sono concordi nell’affermare che questo è spesso l’esito di un delirio finalizzato alla distruzione dell’esistenza dei sopravvissuti. Questa dinamica è particolarmente presente nelle donne che vivono un rapporto fusionale con la madre. Ad esempio, in alcuni casi di anoressia, la paziente coltiva in sé l’idea di punire la madre introiettata attraverso l’annientamento del proprio corpo. Uccidono se stesse per uccidere la madre.
La cosa è veramente complessa. Ad esempio, ogni clinico, qualsiasi sia la sua specialità, internista, traumatologo, chirurgo, cardiologo o tossicologo, prima o poi si imbatte in casi di pazienti per i quali ha il forte sospetto che l’evento traumatico o patologico che ha davanti, sia un suicidio mascherato. D’altra parte è esperienza comune sentire ex infartuati o persone che sono “arrivate vicino alla morte” dire dopo la malattia: “ Ho cambiato vita. Sono diventato un’altra persona”.
Il suicidio rimane un mistero.
E’ vero quello che scriveva O. Gabbard : “Chi vuole veramente suicidarsi, lo farà” . Vi era forse nella sua affermazione rivolta agli operatori, il tentativo di sgravarli dagli inevitabili sensi di colpa e stress dopo il suicidio di un paziente e, dall’altra, la volontà di ridimensionare la possibilità terapeutica di chi si prende in carico un “candidato suicida”. Quando soffia “Il fantasma muto”, sia paziente che terapeuta sentono che in gioco vi sono forze immense, archetipi: la vita e la morte. Dicendola con Freud, combattono dentro di lui l’istinto di vita e di morte e, né il paziente né il terapeuta sa, quali dei due veramente avrà la meglio.
Dice James Hillman nel libro “Il suicidio e l’anima”, (Adelphi): “In questa lotta è come fossimo chiamati, spinti verso la necessità di svelare la morte per gustare la vita. Nell’esperienza della morte l’anima trova una rigenerazione. L’impulso suicida che non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita, ma come un andare incontro al bisogno ‘imperioso’ di una vita più piena”. Hillman alla fine della prima parte del suo libro scrive : «L’esperienza della morte è necessaria, vie di uscita non ce ne sono, né mediche né simboliche. Le spesse mura difensive innalzate contro la morte attestano la sua potenza, e del nostro bisogno. Come la religione, come l’amore, come la sessualità, la fame, l’istinto di autoconservazione, e come la paura stessa, la tensione verso la morte è tensione verso la verità fondamentale della vita. Se alcuni chiamano Dio questa verità, allora la tensione verso la morte è anche tensione verso l’incontro con Dio, che per taluni teologi è reso possibile soltanto dalla morte. Il suicidio, tabù per la teologia, chiede con forza che Dio si riveli».
Scriveva Albert Camus che nel suo celeberrimo “Mito di Sisifo” : «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo”.
Sapete chi era Sisifo? Un condannato a spingere un pesante masso per l’eternità e quando questo rotolava a valle, egli era costretto a ricominciare dal punto di partenza. E’ la descrizione dell’impossibilità dell’uomo ad attribuire un senso alla vita, illudendosi di poter ricominciare ogni volta, fin quando inevitabilmente muore
Ha ragione Hillman: “ Più che di essere spiegato, il suicidio attende di essere compreso”.
Rispetto per Marco.
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