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Sukiyaki Western Django (スキヤキ・ウエスタン ジャンゴ). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura: Miike Takashi, Nakamura Masa. Montaggio: Shimamura Yasushi. Fotografia: Kurita Toyomichi. Musiche: Endō Kōji. Interpreti: Itō Hideaki, Andō Masanobu, Satō Kōichi, Momoi Kaori, Iseya Yūsuke, Ishibashi Renji, Kimura Yoshino, Oguri Shun, Quentin Tarantino, Uchida Ruka. Durata: 121’. Uscita nelle sale giapponesi: 15 settembre 2007.
Link: Mark Schilling (Japan Times) - Chris MaGee (J-Film Pow Wow) - Valentina Torresan (Movieplayer.it)
Un pistolero senza nome (Itō Hideaki) arriva in un villaggio devastato da anni di lotte tra i due clan che lo abitano: i rossi, gli Heike, capitanati da Kiyomori (Satō Kōichi), e i bianchi, i Genji, alla testa dei quali sta Yoshitsune (Iseya Yūsuke), entrambi alla ricerca di un tesoro che si narra essere nascosto proprio in quel villaggio. Il pistolero preferisce prendersi del tempo per riflettere, per capire meglio con chi ha a che fare: sarà Ruriko (Momoi Kaori) a spiegargli la storia del villaggio, di come sono iniziate le violenze, di come suo figlio Akira (Oguri Shun) sia stato ucciso da Kiyomori e sua moglie abbia perso la ragione a causa del dolore diventando una sorta di prostituta del clan Heike, di come suo nipote, il piccolo Heiachi (Uchida Ruka), da allora non parli più. Il pistolero col cappello da cowboy prende a cuore la storia di Shizuka (Kimura Yoshino) e di Heiachi e decide di proteggerli; nel frattempo viene a conoscenza della leggenda di Bloody Benten, spietata assassina che si rivelerà essere proprio Ruriko, costretta a rispolverare le armi in occasione della battaglia definitiva tra i clan e durante la quale sia lei che Shizuka perderanno la vita.
Il prologo del film vede protagonista il regista di culto, nonché amico di vecchia data di Miike, Quentin Tarantino, nel ruolo di Piringo, il quale introduce la storia della guerra tra i clan scomodando niente meno che lo Heike monogatari, capolavoro della letteratura giapponese del XIV secolo, di cui cita letteralmente l’incipit. I nomi dei clan sono infatti i nomi dei due casati che si sono scontrati durante la guerra Genpei (1180-1185) e che ha sancito la definitiva sconfitta degli Heike, o Taira, per mano dei Genji, chiamati anche Minamoto. Fra i vari personaggi vi è poi Benkei, che nella tradizione letteraria giapponese è conosciuto e profondamente amato come fedele servitore di Minamoto no Yoshitsune, vero e proprio eroe storico, le cui gesta sono state tramandate per secoli dai cantastorie, mentre il suo omonimo cinematografico risulta un bullo grezzo.
Nel gioco delle citazioni un posto speciale viene riservato anche a Shakespeare, il cui Enrico VI (e non IV come viene erroneamente tradotto nella versione italiana del film) è citato da Kiyomori come esempio supremo di dramma epico: il dramma shakespeariano narra infatti delle vicende legate alla Guerra delle due rose (1455-1485), che vede protagonisti i casati dei Lancaster e degli York, la rosa rossa e la rosa bianca, ovvero gli stessi colori dei clan del film, che poi sono, non certo per coincidenza, i colori della bandiera giapponese, e ancora, i colori della speciale rosa nata dopo l’unione di Shizuka e Akira.
Il film segna anche l’incontro tra letteratura e settima arte, mescolando alle vicende di Heike e Genji quelle dei cercatori d’oro dei film western, il registro stilistico del western all’italiana (si veda la scena della sparatoria iniziale): titolo a parte, chiaramente, la bara all’interno della quale viene nascosta la mitragliatrice, arma segreta dei Genji, è identica a quella usata da Franco Nero nel Django del 1966 di Sergio Corbucci. Il primo a rendere omaggio al nostro cinema – o a saccheggiarlo, a seconda di come la si veda – è stato proprio Quentin Tarantino che in questo film, interpretando Piringo, rende il favore a Miike per il cameo nel film Hostel, da Tarantino prodotto, e girato e sceneggiato da quel Eli Roth che ha firmato anche la regia di Orgoglio della nazione, film nel film in Bastardi senza gloria (in cui compare anche come importante personaggio, l’Orso ebreo).
La sensazione che suscita Sukiyaki Western Django è che rimanga un po’ tutto in famiglia, o meglio, tra amici: la figura di Bloody Benten, le cui iniziali sono BB, come quelle della figlia di Uma Thurman, aka Black Mamba, aka Beatrix Kiddo, in Kill Bill, non aggiunge nulla al profilo della vendicatrice tanto amato da Tarantino (e di nipponica ispirazione): Ruriko/Bloody Benten appare come un personaggio piatto, senza il minimo approfondimento psicologico, e talvolta le sue azioni non sembrano neppure reggersi su una solida sceneggiatura: per quale ragione la spietata assassina ha lasciato uccidere il figlio senza batter ciglio e permesso che il villaggio andasse in rovina? Il pensionamento, come giustificazione al non agire più del killer, è plausibile nel Kill Bill tarantiniano, in quanto inquadrato in una cornice di significato ironicamente lavorativa, ma qui non regge. Che la pellicola di Tarantino sia d’ispirazione per Miike lo si capisce anche dalla scena in cui Piringo istruisce una giovane Ruriko nell’arte della pistola e che riporta subito alla mente i crudeli insegnamenti del maestro Pai Mei.
Sulla carta il film potrebbe stimolare un’infinità di analisi comparatistiche, ma di fatto l’entusiasmo in merito si spegne in fretta. A conti fatti la storia non coinvolge, non appassiona, nemmeno nelle battute finali, in cui il futuro Django, che compirà la sue prodezze in Italia (così lasciano presagire le didascalie), ovvero il piccolo Heiachi, rinasce, appunto, in quanto eroe, sulle tombe ricoperte di neve di tutti i suoi famigliari morti. Apprezzabili sono invece le scenografie di Sasaki Takashi, il quale attinge alla commistione di elementi nipponici e americani per la costruzione del villaggio, e che si ispira fieramente alle stampe giapponesi ukiyo-e per il pregevole fondale del prologo in cui spicca un suggestivo monte Fuji. [Ramona Ponzini]
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