Kazimir Malevic 1915, Suprematismo
Ragionare in termini teorici intorno ad un concetto come quello di «crisi», il cui uso inflazionato sembra godere di una diffusione senza pari nelle cronache economiche e politiche degli ultimi quattro o cinque anni, espone ad una molteplicità di rischi interpretativi di cui è bene fissare le specifiche coordinate. «Crisi» è un lessema troppo vasto e polisemico per essere costretto all’interno di un unico campo semantico: si parla correntemente di crisi politiche, economiche, ambientali, morali, psicologiche; ciascuno di questi ambiti conosce una particolare modalità di «crisi», per risolvere la quale occorrono strumenti di volta in volta differenti. Se si rivela scorretto declinare in maniera univoca il concetto di crisi, a causa della vastità degli ambiti teorico-pratici rispetto ai quali esso si riferisce, appare altresì evidente come l’uso di questo termine si modifichi – subendo pertanto un continuo processo di ri-significazione all’interno di questi stessi ambiti – in base alla fase storico-temporale durante la quale esso viene impiegato. Per sottrarsi alla probabile impasse concettuale che, sulla base di tali premesse, potrebbe ostacolare la riflessione sul termine «crisi», occorre definire fin da subito il percorso analitico che si intende tracciare, illustrando quali siano i riferimenti teorici prescelti per affrontare questo tema ed evidenziandone la trama di connessioni interne, capaci di garantire l’unità del discorso.
Il punto di partenza per indagare in ottica storica e teorica (ma non per questo vuotamente “astratta”) il tema della crisi consiste nell’individuazione delle radici etimologiche del concetto e del suo posizionamento – dal punto di vista della storia concettuale – nella dimensione storico-temporale: si farà dunque riferimento all’opera dei Reinhart Koselleck, Il vocabolario della modernità [1]. Una volta fissate le coordinate generali del problema, si passerà poi ad osservare il modo in cui la crisi viene trattata nel campo della storia della scienza, con l’obiettivo di comprendere come la conoscenza del mondo naturale si sia di volta in volta misurata con la crisi dei propri paradigmi e con la necessità di ripensarne le strutture fondamentali: qui si farà riferimento al celebre testo di Thomas S. Kuhn, intitolato La struttura delle rivoluzioni scientifiche [2]. Infine si prenderà in esame l’ambito del diritto e della politica – attraverso l’opera di Carl Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico [3]– per mettere in luce il processo di adeguamento dei modelli giuridico-politici ai rapidi sconvolgimenti di cui è protagonista la società contemporanea, la quale è costretta a confrontarsi con la crisi delle strutture normative costituite e con la conseguente esigenza di creare ordinamenti di tipo nuovo. Il fil rouge dell’analisi – mediante il quale questi piani argomentativi così diversificati possano dialogare – è rappresentato dal dispositivo della decisione – che gioca un ruolo fondamentale nel processo di superamento della crisi – e dal tema dell’esistenza (o meno) dell’oggettività dei paradigmi storiografici, scientifici e giuridici, il cui svisceramento offre preziose indicazioni per sottrarre il nostro tema – così ampio e per certi versi nebuloso – ai rischi dell’indeterminatezza interpretativa.
1. La crisi nella storia delle idee: Koselleck tra «decisionismo» e «teologia»
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Andando alla ricerca delle radici etimologiche del termine, si nota subito quale sia la caratterizzazione semantica della parola «crisi»: proveniente dal greco krino (separo, scelgo, decido; nella forma mediale: mi misuro, lotto, combatto), la crisi chiama in causa la questione dell’analisi e della decisione. Se per individuare la criticità di una condizione – storica, politica, psicologica – risulta necessario separare le sue componenti interne al fine di individuarne i nodi problematici – compiendo dunque un’analisi –, la risoluzione della crisi, in termini sia progressivi che regressivi, passa da un atto volontario che si configura nella forma della decisione, la quale implica l’obbligo di optare tra «alternative esasperate […]: successo o fallimento, ragione o torto, vita o morte, infine salvezza o dannazione»[4]. La questione della “tragica scelta” tra alternative irriducibili stabilisce già i contorni concettuali del termine crisi, mentre appare del tutto impossibile definirne i contenuti in maniera univoca ed universale: la crisi affiora nell’ambito della quasi totalità delle attività umane, di cui sarebbe impensabile offrire un campionario esaustivo; pertanto la sola (o quasi) categorizzazione del concetto che risulti plausibile riposa sulla consapevolezza che la crisi abbraccia la totalità delle «situazioni decisionali della vita interna ed esterna, della singola persona e della sua comunità»[5]. Ciò che, a livello teorico, permette di definire la crisi dal punto di vista della storia concettuale consiste, secondo Koselleck, nella categoria del tempo: solo nel tempo, e cioè nella Storia, la crisi si dispiega come fenomeno umano, ed è alla luce di questa evidenza che l’autore tedesco elabora tre modelli semantici del termine crisi, la cui origine egli situa – per ciò che concerne l’Epoca Moderna – nell’ambito della riflessione teologica.
Reinhart Koselleck (1923-2006)
Da un lato, la crisi può essere intesa come «crisi permanente» (vale a dire «decisione permanente»), e dunque come condizione processuale continua nella Storia, il cui corso temporale coincide con la temporalizzazione del giudizio universale. «La storia del mondo è il tribunale del mondo» (Schiller): la processualità storica, ossia l’insieme delle azioni prodotte dall’uomo, sottostanno ad un giudizio perenne emanato dalla Storia stessa, il cui verdetto di approvazione o di ripulsa si rende noto dal grado di successo o fallimento ottenuto dai risultati di queste stesse azioni. La visione processuale della crisi – eletta a decisione universale, dunque permanente – costituisce una potentissima fonte di legittimazione ex-post delle scelte individuali e collettive, la cui maggiore o minore adeguatezza risiede appunto, dal punto di vista teologico, nell’esito che la Storia affida loro[6]. In secondo luogo, la crisi si configura come «concetto periodale iterativo» (questo è il modello da cui Koselleck è meno persuaso), in base al quale si indagano le crisi e i loro «decorsi storici» per farne derivare una serie di analogie e di differenze tra loro comparabili e, in prospettiva, prevedibili. Questo modello semantico trasferisce il problema della decisione in una posizione ridimensionata e – afferma l’autore – trova riscontro empirico “soltanto” in campo economico, scientifico-naturale e tecnico-industriale, dove i momenti di crisi da un lato risultano “misurabili”, grazie ad alcuni parametri numerici stabiliti, e dall’altro vengono spesso identificati come le fasi che preparano il terreno ad un periodo storico segnato dal «progresso» – specie materiale – della società[7]. Attraverso questo modello semantico, che legge la crisi come momento che precede sistematicamente un cambiamento migliorativo delle condizioni dell’uomo, non si riesce a stabilire se il concetto di progresso guidi o sia guidato da quello di crisi, proprio perché quest’ultima si presenta “solo” come prodromo di un avanzamento materiale ed intellettuale della società, e non già come uno spazio dell’esercizio decisionale. Infine, la crisi si esprime come «decisione ultima», vale a dire definitiva ed irrevocabile, capace di aprire un varco attraverso cui si giunga ad una fase davvero inedita del tempo storico. Qui si nota con tutta evidenza il valore teologico di questo concetto, il cui utilizzo però oltrepassa il quadro della trascendenza e si incarna nell’ambito dell’immanenza storica, dunque politica, attraverso il concetto di rivoluzione intramondana: Robespierre, Saint Simon e, per certi versi, Marx ritengono di trovarsi alla vigilia della «Grande Crisi Finale», dopo la quale il mondo conoscerà una nuova giovinezza (dunque mai sperimentata prima, come invece si potrebbe pensare se si adoperasse il primo modello semantico illustrato da Koselleck)[8]. La decisione adottata nel tempo della crisi finale prende qui le forme dell’attivazione dello sconvolgimento sociale e della creazione dell’«uomo nuovo», la cui realizzazione si lega teologicamente al giudizio universale della Storia, che si manifesta – ancora una volta – tramite il successo o il naufragio di questo progetto di palingenesi collettiva – tragico, grandioso e anch’esso alimentato dalla forza trainante dell’idea di progresso.
Tuttavia, ci rammenta Koselleck, percepire la crisi come il momento decisivo e risolutivo di volta in volta incombente costituisce un facile errore di prospettiva. L’attesa messianica invocata dal pensiero teologico rischia di oscurare la precipua singolarità della crisi come fenomeno storico, ossia la sua natura di momento sì decisivo, ma non necessariamente risolutivo, e cioè finale. La crisi si propone, piuttosto, come un passaggio in cui la decisione e l’azione umana si rendono necessarie in quanto condizionate dall’urgenza incombente del tempo. Il tempo “moderno”, a sua volta, grazie allo sviluppo della tecnica, subisce un processo di accelerazione senza precedenti, mentre la pretesa teologica della «Grande Crisi» e del giudizio universale prefigurano l’imminenza della fine del tempo, e dunque l’abbreviazione della Storia[9]. Questa dialettica di accelerazione ed abbreviazione del tempo ci restituisce nella sua pienezza una constatazione fondamentale: sia nel caso dello sviluppo tecnico-scientifico (di cui già Bacone invocava la maggiore rapidità, al fine di poter meglio controllare i fenomeni naturali), sia nel caso del giudizio apocalittico, la cifra comune sembra essere quella della contrazione temporale, che equivale all’aumento della pressione esercitata dall’articolarsi degli eventi storici rispetto alle strutture della società, del tutto incapace di determinare una qualche forma normalizzazione del tempo storico. Se, dunque, la crisi viene analizzata come un evento storico, sia esso processuale o circoscritto, emergono con forza almeno tre elementi: la necessità del discernimento (analisi) dei fattori che determinano una situazione critica, al fine di individuarne l’origine o le origini concrete; la decisione, come dispositivo immanente al concetto di crisi e come strumento imprescindibile del suo superamento; l’assenza di oggettività (del reale e del tempo, in questo caso), intesa come realtà storica universalmente condivisa e percepita, alla quale richiamarsi per scorgere una possibile via d’uscita dalla crisi. Sullo sfondo rimane il tempo storico, che conserva il ruolo di macrocategoria all’interno della quale interpretare il problema della crisi, nella consapevole assenza di ogni illusione deterministica o escatologica, e nella tragica necessità della decisione volontaria.
2. Thomas Kuhn e la crisi dei paradigmi scientifici
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Giunti a questo punto, sviluppare una riflessione sulla crisi dei paradigmi scientifici, e metterla a confronto con i contributi elaborati da Koselleck nel campo della storia delle idee, significa, in primo luogo, soddisfare l’esigenza di comprendere – nell’ambito della storia della scienza – quale ruolo rivesta il fenomeno della crisi e, in secondo luogo, osservare quanto il dispositivo decisionale e la teoria dell’assenza di oggettività (del Reale e dei paradigmi scientifici) siano determinanti nel riconoscimento e nel superamento della crisi stessa. Il punto di partenza dell’opera di Kuhn, che mira a definire il processo attraverso cui si producono le cosiddette «rivoluzioni scientifiche», muove dalla definizione della «scienza normale» [10], per poi illustrare come si determini l’emersione di un’«anomalia» all’interno dei modelli teorici scientificamente consolidati. Ora, l’anomalia, nel campo della storia della scienza, funge da spia della crisi di un paradigma e, al contempo, da fattore primario di nuove scoperte (che Kuhn distingue dalle invenzioni). Essa si produce quando «la natura [viola] le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale»[11], ponendosi quindi in contraddizione con i parametri della scienza normale. L’emergere dell’anomalia origina la messa in discussione (non già la crisi vera e propria: lo vedremo più avanti) di un paradigma e, spesso, offre l’occasione di ricercare nuove regole e nuovi strumenti per misurarsi con scenari imprevisti (come nel caso della rivoluzione copernicana, o in quello della scoperta dell’ossigeno[12]), i quali pongono lo scienziato di fronte all’urgenza di verificare anzitutto la validità e la riproducibilità dell’anomalia, e inoltre di immaginare un nuovo complesso di regole che sottraggano l’avvenuta scoperta al rango di «anomalia», giungendo alla ridefinizione delle strutture della scienza normale.
Thomas Kuhn (1922-1996)
Tuttavia, avverte Kuhn, non è obbligatorio né automatico che lo scienziato abbandoni i paradigmi consolidati nel caso in cui dovesse emergere un’anomalia, proprio perché «una volta raggiunto lo status di paradigma, una teoria scientifica è dichiarata invalida soltanto se esiste un’alternativa disponibile per prenderne il posto» [13]: lasciarsi alle spalle un paradigma acquisito e ricercare le condizioni per la nascita di un nuovo paradigma, le cui strutture sono ancora tutte da costruire e da verificare, costituisce un atto decisionale dello scienziato. Per accettare un paradigma inedito, in molti casi allo scienziato non basta «un semplice confronto di quella teoria con il mondo»[14], benché essa dimostri la validità dell’anomalia e l’evidenza di una serie di contraddizioni nella teoria per così dire “classica”. Insomma, il dato di fatto della pertinenza scientifica di una nuova scoperta non necessariamente induce lo scienziato ad abbandonare la teoria acquisita e ad abbracciare la ricerca – non l’accettazione di una formula già presente e comprovata – per l’elaborazione di una nuova teoria: ed è questo, secondo Kuhn, il vero punto di avvio della crisi, che nasce solo se l’anomalia viene riconosciuta come tale e se si è disposti a seguirne l’evoluzione, prendendo in considerazione l’ipotesi di rinunciare al paradigma precedente. Se, pertanto, la crisi del paradigma si produce allorché se ne riconosce l’esistenza, lo «scienziato in crisi» è colui che lavora nella fase – talvolta molto lunga – che intercorre tra la «coscienza del fallimento» e l’«emergere di un nuovo paradigma», e che tenta sia di applicare rigidamente le teorie della scienza acquisita – per comprendere fino a che punto esse siano ancora utilizzabili –, sia di ampliare le dimensioni del «guasto» (l’anomalia), sottoponendolo ad una costante pressione sperimentatale al fine di saggiarne peso e dimensione rispetto al vecchio paradigma. Ma, ancora una volta, lo scienziato in crisi è un ricercatore che decide di attraversare la crisi e di essere protagonista di un atto creativo – la definizione teorica di un nuovo paradigma –, rifiutando di bollare la scoperta dell’anomalia come un’eccezione casuale all’interno di un quadro di regole pur sempre valido.
Ecco dunque riemergere il fattore decisionale e l’assenza di oggettività dei paradigmi scientifici: Kuhn dimostra quanto sia determinante l’atto volontario dello scienziato nella ridefinizione dell’oggettività delle teorie delle quali si nutre la «scienza normale», la cui normalità qui appare, più che come un totem inviolabile delle conoscenze riguardanti il mondo naturale – troppo spesso ritenute oggettive ed inviolabili indipendentemente dai contesti storici e culturali nei quali esse sono immerse –, come il frutto del dispositivo decisionale dei membri della comunità scientifica. Essi di certo devono fondare le proprie teorie innovative sulla base di evidenze empiriche comprovabili, ma al contempo figurano come gli attori del rinnovamento della scienza normale soltanto nel momento in cui accettano liberamente di attraversare la crisi del paradigma dominante senza la certezza di giungere alla formulazione di una nuova teoria, ossia alla celebrazione di una rivoluzione scientifica che integri o sovverta il contenuto delle conoscenze umane del mondo naturale, inaugurando la nuova grammatica della cosiddetta «scienza normale».
3. La crisi nel pensiero giuridico e politico di Carl Schmitt
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Tra i massimi teorici del decisionismo e dell’eccezionalismo, tanto in chiave politica quanto in chiave giuridica, Carl Schmitt offre una vasta mole di suggerimenti allo studio del concetto di crisi, benché questo non sia posto esplicitamente al centro delle sue riflessioni sulle varie tipologie di pensiero giuridico che qui verranno prese in considerazione. Il saggio di Schmitt, elaborato nel contesto delle contese giuridico-politiche che attraversano l’Europa degli anni Trenta, costituisce una suggestiva dimostrazione di come si dispieghi l’esercizio della critica nel campo del diritto, intendendo con il termine “critica” l’attività di distinzione e di separazione delle componenti di una data questione; di isolamento dei rispettivi contenuti; di illustrazione delle loro specifiche caratteristiche e, infine, di decisione in merito al grado di validità di una o più d’una delle possibili soluzioni della crisi emerse nel corso dell’analisi.
L’indagine intorno alle tipologie di pensiero giuridico induce l’autore a dichiarare, in un incipit fulminante, che ciascun giurista – dotato di uno specifico orientamento riguardo alla propria concezione del diritto – «intende quest’ultimo o come una regola, o come una decisione, o come un ordinamento e una struttura concreta», aggiungendo inoltre che – nonostante il lavoro giuridico debba prendere in considerazione tutte le tipologie qui individuate – la «concezione finale» alla quale il giurista si appella per articolare la sua particolare inclinazione «è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto»[15]. Una volta stabilito il perimetro analitico del suo lavoro e le ragioni della ricerca – e cioè comprendere, da un punto di vista storico-concreto e non semplicemente logico-formale, l’essenza delle tre sole forme di pensiero giuridico esistenti, oltre le quali altre distinzioni categoriali non sembrano possibili – Schmitt sviluppa più nello specifico le sue personali osservazioni.
Partendo dal presupposto per cui ciascuna di queste tre forme si riserva il compito di definire l’essenza generale del diritto, senza che ciò implichi una contrapposizione tra «diritto e decisione, o diritto e legge, o diritto e ordinamento»[16], Schmitt legge nel concetto di “ordinamento” non tanto un insieme di regole o di norme, bensì l’elemento autonomo e a sé stante del diritto stesso, dove le regole o la somma di regole esistenti rappresentano semplicemente una componente dell’ordinamento. Esso, incastonato come una possente architettura all’interno di un certo contesto storico-culturale, di cui contribuisce a definire la particolare fisionomia, fa derivare da sé stesso l’insieme di norme che presiedono all’organizzazione delle varie “situazioni oggettive” della realtà, e non subisce condizionamenti essenziali dai continui mutamenti che, alla luce della rapida evoluzione di queste stesse “situazioni oggettive”, le singole norme vivono di volta in volta. Al contrario, il pensiero fondato sulla “norma” postula l’autonomia di quest’ultima da qualsiasi ordinamento costituito e da qualsiasi orizzonte storico-culturale durante il quale essa viene prodotta, sottolineando come la norma si elevi al di sopra dei casi singoli e conservi caratteristiche di purezza ed oggettività contenutistica incontestabili[17]. La «superiorità sovrana» della norma, afferma Schmitt, è utilizzata dal pensatore normativista contro il fattore decisionale soggettivo, di per sé personale e parziale, in quanto il nomos basileus (il «nomos re»), e non tanto il bisogno contingente o la decisione arbitraria di uno o più uomini, vanta il diritto di comandare e dirigere la società[18]. Mettendo a confronto il pensiero fondato sull’ordinamento e quello fondato sulla norma, Schmitt dimostra come quest’ultimo – proprio perché slegato dalle determinanti storiche – conceda al dispositivo della regola un valore assoluto, extra-reale, di per sé inviolabile (la norma pura e astratta, ancorché violata, non muta; l’ordinamento concreto, se disatteso o calpestato, può invece crollare). Tuttavia l’autore tedesco riconosce come la norma possa elevarsi al di sopra dei casi singoli in misura soltanto parziale e limitata, poiché altrimenti essa non disporrebbe delle capacità di rispondere alle esigenze regolative che sono alla base della sua stessa esistenza: «la regola segue la situazione mutevole per la quale è stata fissata», e perciò una «norma pura, non correlata ad una situazione o ad un tipo, sarebbe qualcosa di giuridicamente inesistente»[19].
Carl Schmitt (1888-1985)
Sulla scorta di queste riflessioni, Schmitt passa ad illustrare il pensiero fondato sulla decisione, che si pone in termini molto differenti rispetto a quelli che definiscono le prime due tipologie. Il pensiero fondato sulla decisione riconosce la ragione ultima e fondante della validità di una norma non tanto nell’inserimento di quest’ultima all’interno di un ordinamento giuridico concreto, e nemmeno nel suo presunto valore di purezza ed oggettività, ma piuttosto nell’atto decisionale esperito da un’autorità legislativa sovrana, e sovrana in quanto legittimata dal corpo politico (nella contemporaneità si tratta del popolo sovrano elettivo) ad esercitare questo stesso atto. La decisione, che scaturisce da un «nulla normativo» e dunque si cala all’interno di un vuoto storico-giuridico, rappresenta il «principio assoluto» – ossia il dispositivo politico primario di cui si serve la sovranità –, del quale il Leviatano hobbesiano costituisce una metafora del tutto appropriata[20]. La decisione non può infatti essere spiegata giuridicamente, né individuata in un precedente ordinamento, perché è essa che crea l’ordinamento, ovvero produce diritto. La decisione, pur manifestandosi in un vuoto giuridico, si sviluppa tuttavia all’interno di un contesto storico reale che, dominato dal disordine, rende necessaria l’elaborazione della decisione stessa; pertanto, l’atto decisionale si dischiude intorno ad una situazione conflittuale e critica, che presuppone esiti differenti e spesso divergenti, alla luce dei quali l’opzione decisionale risolve l’impasse critica stabilendo un nuovo ordine. La decisione, in ultima istanza, costringe le origini e le motivazioni che alimentano una situazione di crisi a farsi palesi e, al contempo, ne risolve le contraddittorietà per mezzo di un atto volontario legittimo, dopo il quale l’ordine – mutevole, cangiante, mai statico – sostituisce la crisi.
Carl Schmitt conclude il suo saggio sui tre tipi di pensiero giuridico con una forte requisitoria contro il positivismo giuridico del XIX secolo, il quale – subendo in una certa misura l’influenza del positivismo scientifico e filosofico à la Comte – pretende di cogliere la garanzia di validità delle norme e delle regole esistenti dall’evidenza dei «dati di fatto», ossia dalla legalità delle leggi positive, che «è necessariamente sempre […] qualcosa di fattuale, qualcosa di direttamente e concretamente coercibile per mezzo della forza degli uomini»[21]. L’ossessione che agita il pensiero dei giuristi positivisti consiste, dunque, nell’individuazione del principio di validità indubitabile ed oggettivo della legge, che secondo Schmitt essi colgono mediante un mescolamento male interpretato di decisionismo e normativismo: condizionato dall’esigenza di costruire un’architettura giuridica (uno “Stato di diritto”) stabile, prevedibile e sicura, il positivista – fingendo di espungere dalle motivazioni da cui scaturiscono le leggi ogni possibile influenza metafisica o metagiuridica – guarda al solo contenuto concreto della norma per stabilirne la “positività”, dimenticando come tale contenuto discenda da condizionamenti ideologici, politici, economici precedenti la “datità” della norma stessa. L’errore del positivista sta nel sottomettersi, in un primo tempo, alla decisione del legislatore statale, la cui autorità conferisce coercibilità alla norma appena istituita; e nel pretendere, in seguito, che tale legislatore si pieghi alla realtà di questa stessa legge – meglio, ne faccia derivare la sua legittimità di legislatore –, per la semplice ragione che essa è divenuta positiva, dunque fattuale[22]. Il cortocircuito logico del positivista viene smascherato dall’autore tedesco in un passo che conviene riportare per intero:
La sicurezza, stabilità e inviolabilità alla quale il positivista si richiama è in realtà – per quel che concerne la componente decisionistica del positivismo – soltanto la sicurezza, la stabilità e la inviolabilità della volontà la cui decisione sovrana rende la norma vigente. Ma nel fatto di richiamarsi alla volontà del legislatore statale o della legge statale […] il positivista è legato – se si considera la cosa dal punto di vista della storia del diritto – alla teoria decisionistica dello Stato sorta nel XVII secolo ed è perciò destinato a cadere con essa. […] Nella misura in cui, alla fine, dietro l’esigenza di sicurezza del positivismo si nasconde soltanto la subalterna, generale tendenza umana verso la protezione dal rischio e dalla responsabilità, si può comunque dire – anche se soltanto in senso riduttivo – che si tratta qui di un tipo umano generale, «eterno» ed inestirpabile. [23]
Da queste parole emerge sia la fragilità delle «ansie di oggettività» di cui i positivisti danno prova, sia la maggiore incisività del pensiero decisionista rispetto al pensiero fondato sulla norma, sull’ordinamento o sulla «positività della legge». Il diritto basato sulla decisione «consente il collegamento positivo ad un determinato momento storico concreto, nel quale, da un precedente nulla quanto alle norme o da un nulla quanto all’ordinamento, scaturisce la legge positiva (che dev’essere intesa solo in modo positivo), la quale poi però deve continuare a valere come norma positiva»[24]. La preferibilità del dispositivo decisionista permette dunque di cogliere la validità fondante delle norme vigenti, risolvendo l’enigma della fondazione legittimante della legge ed offrendo uno strumento giuridico e politico di immenso valore per il superamento delle situazioni critiche reali. Delineando i contorni ed i contenuti della norma, modellati in base alla particolarità delle situazioni concrete, il pensiero decisionista offre secondo Schmitt la chiave di lettura dei meccanismi primordiali del potere, configurandosi come la bussola teorica indispensabile per misurarsi con le esigenze di discernimento e di scelta che le interminabili crisi del Reale impongono all’autorità sovrana, sia essa individuale o collettiva.
4. La crisi come fenomeno della libertà
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Quadro di Kazimir Malevič (1878-1935)
Al termine di questa riflessione sul concetto di crisi, è opportuno chiarire alcuni punti che sono emersi nel corso dell’analisi. Anzitutto si è tentato di preservare il termine “crisi” dalla vaghezza interpretativa che i suoi molteplici usi avrebbero potuto determinare, attraverso l’individuazione di un percorso teorico – dalla storia delle idee a quella della scienza, per finire con le teorie giuridiche schmittiane – che conserva la propria organicità grazie alla centralità assunta nella nostra riflessione dal tema della decisione e da quello dell’assenza di oggettività concreta (storica, scientifica, giuridica). Se si è posta tanta enfasi sulla questione della decisione e dell’oggettività, è perché si ritiene che la crisi – come fenomeno sostanzialmente storico – manifesti tutta la sua potenza nel momento in cui si elidono le strutture morali, politiche ed ideologiche su cui si modella la presunta normalità di un contesto storico, e – di conseguenza – si impone la necessità di una o più scelte dagli esiti imprevedibili. Proprio perché il concetto di crisi chiama in causa l’annullamento dei dispositivi di «sicurezza», «prevedibilità» ed «oggettività», è sembrato opportuno mostrare il vuoto su cui riposano queste ultime categorie. Sottolineando il valore della volontà nel processo di superamento della crisi, le condizioni di possibilità di quest’ultima sono a nostro avviso strettamente connesse ad uno stato di libertà morale e materiale, che favorisce – in quanto privo di un indirizzo d’azione predefinito – l’insorgere della necessità decisionale. L’esercizio della libertà consapevole costituisce la dimensione entro cui si registra con maggiore probabilità l’insorgere della crisi, le cui oscillazioni sono in grado di far esplodere tutte le contraddizioni che quello stesso esercizio di libertà contiene al suo interno, in quanto fondamento stesso della normalità sconvolta dalla crisi. Libertà e crisi si attraggono e si respingono reciprocamente, contribuendo a tracciare il percorso dialettico dell’azione umana, la quale non sempre, anche se corroborata dalla decisione, è capace di ricomporre la realtà nel segno della normalità prevedibile. Qui si impone la tragicità dell’umano, o, se si preferisce, la tragica scissione che ne caratterizza l’essenza più profonda; tuttavia, laddove la reductio ad unum si dimostra irraggiungibile in forza della crisi, la tensione prodotta da parte della decisione nei confronti della realtà (in crisi) ne consente una parziale ed imperfetta ridefinizione, ancorché disarmonica e necessariamente lacerata.
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Note (↵ returns to text)- R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, Bologna, Il Mulino, 2009 (2006); si vedano in particolare i capp. I, II e V.↵
- T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1995 (1962).↵
- C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del «politico», Bologna, Il Mulino, 1972 (1934), pp. 247-275.↵
- R. Koselleck, op. cit., pp. 95-96.↵
- R. Koselleck, op. cit., pp.95-96.↵
- R. Koselleck, op. cit., pp. 100-102.↵
- R. Koselleck, op. cit., p. 103.↵
- R. Koselleck, op. cit., p. 104.↵
- R. Koselleck, op. cit., pp. 105-106.↵
- T. Kuhn, op. cit., p. 43.↵
- T. Kuhn, op. cit., p. 76.↵
- T. Kuhn, op. cit., p. 92.↵
- T. Kuhn, op. cit., p. 103.↵
- T. Kuhn, op. cit., pp. 104-105.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 247.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 250.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 252.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 252.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 260.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 264.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 270.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 270.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 273.↵
- C. Schmitt, op. cit., p. 272.↵
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