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Sul fondo dell’oceano la verità sulle supernovae

Creato il 21 gennaio 2015 da Media Inaf

Studiando le profondità marine degli oceani terrestri, gli scienziati hanno trovato una sorpresa che potrebbe cambiare il nostro modo di intendere le supernovae, cioè quelle esplosioni stellari così energetiche la cui luminosità può superare per brevi periodi quella di una intera galassia. Lo studio si è basato sull’analisi di campioni di polvere cosmica depositata sui fondali oceanici, che si pensava fosse collegata direttamente alle supernovae, per determinare la quantità di elementi pesanti generati dalle esplosioni stellari.

Questa rappresentazione artistica mostra la polvere che si forma nell'ambiente che circonda una supernova. Osservazioni del VLT hanno mostrato che queste fabbriche di polvere cosmica producono i grani di polvere attraverso un processo a due fasi, iniziando subito dopo l'esplosione, ma continuando in seguito per molto tempo. Crediti: ESO/M. Kornmesser

Questa rappresentazione artistica mostra la polvere che si forma nell’ambiente che circonda una supernova. Osservazioni del VLT hanno mostrato che queste fabbriche di polvere cosmica producono i grani di polvere attraverso un processo a due fasi, iniziando subito dopo l’esplosione, ma continuando in seguito per molto tempo. Crediti: ESO/M. Kornmesser

«Quando esplode una stella, sulla Terra arrivano piccole quantità di frammenti dopo aver viaggiato a lungo nello spazio intergalattico», spiega Anton Wallner del Research School of Physics and Engineering at The Australian National University (ANU) e autore principale dello studio. «Abbiamo analizzato la polvere galattica depositata sui fondali marini nel corso degli ultimi 25 milioni di anni, trovando che sono presenti molto meno elementi pesanti, come il plutonio e l’uranio, di quanto abbiamo ipotizzato in precedenza».

I risultati sono in contrasto con le attuali teorie sulle supernovae secondo cui alcuni elementi necessari per lo sviluppo della vita, come il ferro, il potassio e lo iodio, vengono creati dalle stelle per poi essere spazzati nel mezzo interstellare. Inoltre, le supernovae producono piombo, argento e oro assieme ad altri elementi radioattivi pesanti, come appunto l’uranio e il plutonio.

In particolare, il gruppo di Wallner ha studiato il plutonio-244, una sorta di orologio radioattivo naturale che decade con un tempo di vita media pari a 81 milioni di anni. «Sin da quando si è formata la Terra dal gas e dalle polveri intergalattiche, circa quattro miliardi di anni fa, ogni elemento riconducibile al plutonio-244 esistito sul nostro pianeta ha continuato a subire il processo del decadimento radioattivo», dice Wallner. «Dunque, riteniamo che questo elemento presente qui sulla Terra deve essersi creato a seguito di eventi esplosivi che sono avvenuti più di recente, cioè nel corso degli ultimi centinaia di milioni di anni».

I ricercatori hanno analizzato un campione della crosta terrestre spesso 10 cm, che rappresenta l’accrescimento di 25 milioni di anni, così come alcuni sedimenti marini raccolti da un’area molto stabile nei fondali dell’Oceano Pacifico. «Abbiamo trovato una quantità di plutonio-244 100 volte inferiore di quanto ci aspettavamo», continua Wallner. «Pare che questi elementi più pesanti non si siano formati nelle supernovae ma pensiamo che siano stati generati a seguito di eventi più rari ed esplosivi, come ad esempio la fusione di due stelle di neutroni».

Inoltre, secondo gli autori, il fatto che tali elementi pesanti, come il plutonio, erano presenti sulla Terra, così come l’uranio e il torio, suggerisce che deve essere accaduto un evento esplosivo vicino al nostro Sistema Solare intorno all’epoca in cui si è formato l’elemento. «Gli elementi radioattivi presenti sulla Terra, come l’uranio e il torio, forniscono quel calore necessario che determina la deriva dei continenti. Forse, gli altri pianeti non possiedono lo stesso meccanismo», conclude Wallner.


Nature Communications: A. Wallner et al. – Abundance of live 244Pu in deep-sea reservoirs on Earth points to rarity of actinide nucleosynthesis

Fonte: Media INAF | Scritto da Corrado Ruscica


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