Molte cose mi sento dire quando discuto delle scelte di vita che mi sono trovato a fare negli ultimi anni. A volte queste sono condivise, a volte addirittura invidiate, ma altrettanto spesso sono criticate, non capite, ritenute insensate. È giusto così, e tante volte sono proprio queste discussioni che mi aiutano a mettere le cose in prospettiva e osservare quello che faccio, fino a permettermi qualche volta di prendere le misure per i passi successivi. Che la scelta di viaggiare per quattro anni di seguito possa essere considerata senza senso o senza ragione logica lo capisco bene. Non ce l’ha. Come mi sono già trovato a dire, non è stata una scelta, è successo e io ho solo lasciato che succedesse. La cosa che non mi va di sentire, però, è la voce di chi lega il viaggio a lungo termine ad una fuga dalle responsabilità.
È facile. Pensarla così dico, è facile. “Se parti è perché c’è qualcosa che non va” oppure ” Se non torni e perché ti stai nascondendo da un problema” sono cose che mi sono sentito dire più volte di quante riesca a contare. Di solito queste parole arrivano da chi non ha mai passato più di due settimane in Thailandia e crede che viaggiare non sia altro che cuocere sulla spiaggia e di solito mi trovo in difficoltà a convicere queste persone che non è proprio così che funziona, ma ogni volta mi fermo a rifletterci e chiedermi chi è qui che davvero ha ragione. Cosa sono queste responsabilità che la vita ci impone? Da dove vengono? Chi le ha decise? Sono oggettive? O ognuno trova le sue? E a cosa servono? C’è una lista? Una pagina su Pinterest?
Per poter fuggire dalle responsabilità bisogna prima capire cosa sono queste responsabilità. Io non ho ancora questo concetto ben chiaro, o almeno, non avevo mai formato l’idea prima di lasciare casa. Mi è stato insegnato, un po’ da tutti nella società in cui ho vissuto fino a vent’anni, che essere responsabili significa non fare danni. Non danneggiare sé stessi o gli altri. Muoversi con cautela. Osservare le regole. Non creare fastidio. Essere produttivi. Seguire il percorso battuto. Tutte cose giuste, sicure, importanti. Comode. Ma anche astratte. Vuote.
Ho sempre avuto l’impressione di vivere in un mondo in cui non c’è spazio per l’irresponsabilità. Otto ore al giorno al lavoro. Due in fila nel traffico. Tre su Facebook. Due su Twitter. Sette a letto. Ripeti. Come è possibile trovare il tempo di causare danni con ritmi così serrati, con giornate divise tra gli obblighi da seguire e lo schermo di un computer? Eppure, per i più, questo è comportarsi in modo responsabile. Basta non buttare carte per terra, non bere troppo, non guidare troppo veloce, non fare commenti inappropriati che qualcuno potrebbe offendersi e del resto non importa preoccuparsi, la scaletta è già scritta, non c’è tempo per prendere decisioni sbagliate. Prendersi cura degli altri oggi significa solo non fargli del male (chi ha tempo di fare del bene?), e prendersi cura di sé stessi è lasciare che la vita ci scorra attorno. Una vita piatta è una vita responsabile. O solo una vita non irresponsabile?
Essere responsabili per sé stessi: sapersela cavare, non dipendere o pesare sulle spalle altrui, fare le scelte giuste.
Quando sono partito, nessuno dei miei coetanei pagava un affitto. Non solo mi sono trovato in un paese dove l’affitto costa il doppio che a casa, ma ero senza un lavoro. Senza un contatto. Senza esperienza alle spalle. Senza un biglietto di ritorno. Senza un piano B. Senza un piano A. Mi sono sentito veramente responsabile per me stesso, per la prima volta. È andata bene, l’ho fatta andare bene. Negli anni non ho mai chiesto soldi a nessuno, ho mangiato pasta al pomodoro per mesi consecutivi e poi riso in quantità da esportazione. Quando i soldi stavano finendo, ho fatto sempre in modo di trovarne uno e quando il lavoro non c’era, me ne sono inventato uno (lo state leggendo in questo momento). Tutto quello che posseggo entra in uno zaino, perché di più non posso gestire. Quando attraverso un paese del terzo mondo so che potrei essere lasciato in mutande se non sto con gli occhi aperti, per questo sto con gli occhi aperti. Nessuna di queste però è “la scelta giusta”, la responsabilità. La scelta, l’unica scelta, è stata quella egoista di voler viaggiare. L’unico modo di renderla giusta, giustificata, era portarla a termine, non fallire, dimostrarne il beneficio, e per fare questo mi sono comportato di conseguenza, cercando di non farla pesare a nessun altro. Essere responsabili per sé stessi non è vivere in modo passivo, ma cercare ogni giorno di rendersi più completi. Le scelte necessarie per muoversi in questa direzione però hanno un peso e mai come in viaggio mi sono trovato a dover pensare se ogni mia mossa fosse giusta o sbagliata perché qui, ogni errore ha un prezzo reale.
Essere responsabili per gli altri: comportarsi di modo da non incidere in modo negativo sulla vita altrui.
C’è davvero chi pensa che spegnere il led della televisione salverà il mondo dal riscaldamento globale. Seppur partendo ci si lasciano alle spalle, temporaneamente, le persone più care, viaggiando si ha la possibilità di allargare l’inquadratura e capire che “gli altri” non sono solo quelli che abitano nel raggio di due chilometri da casa nostra. Viaggiando non si tratta di ideali, si può vedere con i propri occhi la differenza che fanno le nostre azioni. Dove mangi, come ti muovi, come spendi i tuoi soldi, conta. Oggi guardo alle mie azioni con molta più coscenza di quanto facevo prima. Sono giunto a conclusioni ovvie che ovvie non erano e ogni volta che mangio penso a dove sto mangiando e a cosa sto mangiando, ogni volta che mi sposto penso a quale mezzo è più appropriato, ogni volta che compro penso a chi ha più bisogno dei miei soldi, considerando sempre l’impatto che ho sugli altri. Certo, non considero viaggiare un’attività sostenibile, ma è stato per me un modo di vedere ogni dettaglio sotto una lente d’ingrandimento e quindi un modo per imparare a prendere decisioni migliori non solo per me stesso.
C’è però un’altra faccia della medaglia, che considero spesso, e riguarda la famiglia e gli affetti che ci si lasciano alle spalle: nonostante io non abbia direttamente bisogno del loro supporto, loro potrebbero avere bisogno del mio. È irresponsabile non essere presenti? Forse. Per quanto creda che fare alcuni sacrifici sia stata una necessità per arrivare a questo punto, non vedo la distanza come un limite. Tutti i rapporti che avevano un valore prima continuano ad averlo oggi e proprio perché ho accettato che se un problema si presenta non c’è altra soluzione che risolverlo, non avrei problemi a comprare un biglietto domani e tornare a casa se qualcuno me lo chiedesse, se di me ci fosse bisogno. Come ho lasciato tutto per partire, potrei lasciare tutto per tornare e di questo mi ricordo ogni giorno.
La conclusione è che quelli che scappano dalle responsabilità sono altri. Sono quelli che partono perché non sanno confrontarsi con i propri limiti, quelli che hanno bisogno di allontanarsi per non essere giudicati, quelli che viaggiano perché un viaggio si compra, ma un futuro va costruito. Certo, chi parte si lascia dietro qualche sicurezza, ma questo non significa essere incoscenti o nascondersi, anzi, forse esporsi aiuta ad essere pronti a ciò che verrà e, appunto, imparare a cavarsela da soli. Nessuno qui è in fuga, io, casomai, le responsabilità sono andato a cercarmele.