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Sul futuro della democrazia e del capitalismo

Creato il 21 gennaio 2015 da Beatotrader

Sul futuro della democrazia e del capitalismo


Poco prima di Natale,
in quel bel pranzetto ad una trattoria piemontese ... tra agnolotti al sugo di arrosto, brasato e bonèt ... il tutto innaffiato da un buon Arneis e suggellato da una buona grappa
Roberto (il Prof.),
Andrea (l'intellettuale)
ed il sottoscritto (blogger...e tanto altro...)
facemmo un sacco di discorsi interessanti (ed appassionati), trattammo di tanti temi economici, politici e sociali.
Beh.....in questa intervista di Andrea Muzzarelli al Prof. Roberto Orsi (PhD alla London School of Economics, docente e ricercatore all'Università di Tokyo)
ne trovate lo Stato dell'Arte...a ben altro livello rispetto a quello conviviale... ;-)

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Un mondo di simulacri: sul futuro della democrazia e del capitalismo


Intervista al professor Roberto Orsi di Andrea Muzzarelli*


Cominciato sotto il segno di due eventi - la strage di Parigi e la mossa a sorpresa della BNS sul franco svizzero - che mostrano quanto sia instabile l'ordine globale sia sul piano geopolitico che su quello economico-finanziario, il 2015 promette di porre un'altra pietra miliare sull'impervia strada della Grande Crisi che ci accompagna dal 2008.

Con la complicità del mondo politico, la finanza internazionale e le principali banche centrali ha scientemente deciso di nascondere la polvere sotto il tappeto, ignorando la realtà e gonfiando una bolla infinitamente più grande di quella appena scoppiata - secondo una ferrea logica di irresponsabilità che ci appare come una delle cifre stilistiche fondamentali di quest'epoca.
La Grande Crisi ha comunque l'indiscutibile merito di spingerci a mettere in discussione teorie, idee, categorie concettuali, "valori" che nello stanco Occidente si davano ormai per scontati, acquisiti in via definitiva.
Se il sonno della ragione genera mostri, il declino di una riflessione filosofico-politica "forte" rischia infatti di renderci ciechi di fronte al progressivo svuotamento di parole come "democrazia", "mercato", "capitalismo", "denaro", "libertà".

Queste sono alcune delle considerazioni chi ci hanno spinto a rivolgere alcune domande al professor Roberto Orsi, PhD in Relazioni Internazionali alla London School of Economics. Docente e ricercatore all'Università di Tokyo, Orsi è l'acuto e originale autore di alcuni articoli lucidi e impietosi sul declino dell'Italia ( diventati rapidamente virali sul web), e in tempi recenti si è occupato della crisi ucraina e del futuro dell'ordine mondiale.

Professor Orsi, nel suo articolo Order and Change in Global Politics: Assessing the "Return of Geopolitics", lei individua tre prospettive principali per il futuro dell'ordine mondiale.
Ce le potrebbe sinteticamente riepilogare?


L'articolo nasce nel contesto di un dibattito tra studiosi americani circa il ritorno di forti tensioni geopolitiche negli ultimi anni, particolarmente evidenti con la crisi in Ucraina e il confronto navale in atto nei mari asiatici tra la marina cinese e quella degli USA e dei loro alleati..............................

Ho cercato di costruire un punto di vista "europeo" su questo tema partendo dalla critica a un uso incorretto ma ancora pervasivo della filosofia della Storia di Hegel nell'ambito degli studi internazionali, iniziata da Francis Fukuyama nel suo famoso saggio del 1992 ( The End of History and the Last Man).

Tale critica non è nuova ma vale la pena di riproporla ancora una volta.

Nella restante parte contestualizzo le categorie di pensiero "classiche" prevalenti nel discorso sulla politica internazionale negli Stati Uniti, in particolare la stabilità di concetti come "democrazia" e "ordine internazionale liberale" ( liberal international order).

Tale processo ha condotto a una profonda alterazione della natura stessa del denaro e quindi dell'intero rapporto tra finanza, economia "reale" e politica;

Particolarmente in ambito occidentale, negli ultimi decenni si è assistito a un'opera di radicale "decostruzione" delle identità collettive, teorizzando la vita politica quasi esclusivamente attorno ai poli dell'individuo o dell'umanità tutta, con la quasi scomparsa di tutte le formazioni intermedie, dalla famiglia alla nazione.

Queste, tuttavia, hanno fornito per millenni il luogo delle forme di socializzazione profonda che sono state per millenni alla base dei processi costitutivi della persona e delle identità collettive, il nucleo di ogni riflessione politica;

In questo primo scorcio di ventunesimo secolo pare stia diventando sempre più chiaro che, escludendo improvvise quanto improbabili rivoluzioni tecnologiche a breve, non è né sarà ecologicamente possibile garantire standard di benessere a livelli occidentali a crescenti masse di esseri umani (attualmente ben oltre sette miliardi) che aumentano di un miliardo ogni 14-15 anni.

Negli ultimi vent'anni si è registrato un notevole incremento del tenore di vita in Asia e in altre regioni del globo - solo parzialmente bilanciato da una contrazione in Occidente - ma quanto di questo sviluppo si basa su uno sfruttamento di risorse naturali che eccede la loro capacità di rigenerazione? Numerosi scienziati in tutti i campi avvertono che tutto ciò, nel lungo periodo, non è sostenibile.

In un'intervista televisiva del 1989, il filosofo e sociologo Ralf Dahrendorf si richiama a Weber per sottolineare che, in un clima di generale mediocrità, le istituzioni democratiche - proprio quelle istituzioni che dovrebbero rendere possibile il cambiamento - possono in realtà finire per impedirlo, diventando una sorta di "muro di gomma" invalicabile (l'Italia è un caso da manuale, al riguardo).

E qui ci ricolleghiamo a quanto lei scrive, nell'articolo citato, sulle democrazie come vettori di sviluppo, e non dideclino.

La democrazia sta vivendo un processo di de-contestualizzazione che ne riflette la degenerazione.

Qualsiasi discorso sui sistemi politici, almeno da Platone in avanti, parte dalla considerazione che un dato regime può operare solo in determinate circostanze, che lo rendono appunto sostenibile e, possibilmente, vantaggioso per la comunità politica che esso amministra.

Preservare un certo regime politico significa dunque conservarne le condizioni (economiche, culturali, sociali, persino internazionali) che lo rendono possibile. Condizioni senza le quali esso si degrada, implode, scompare.

La democrazia richiede la presenza di un demos: non di una "popolazione" o di un "elettorato" qualsiasi in senso esclusivamente formale, ma di una comunità in senso profondo e organico, come lo possono diventare quei gruppi umani che, generazione dopo generazione, imparano a vivere come un unicum, come appunto il demos della polis greca o del villaggio svizzero, con i loro riti, simboli, luoghi di riunione, passaggi iniziatici.

Inoltre, la democrazia non può prescindere da una struttura economica basata sulla piccola proprietà diffusa dei mezzi di produzione (ovvero della terra e del capitale), nella convinzione che non vi è autentica libertà per chi sia indigente, né vera distribuzione del potere politico quando la base economica della società si concentra nelle mani di pochi. Questo è ben noto sin dai tempi di Aristotele.

La democrazia applicata a comunità politiche di decine o centinaia di milioni di persone ha problemi aggiuntivi che, già in molte istanze, ne rendono sospetto il carattere di autentica democraticità. Si pensi alla questione della rappresentanza, del rapporto tra centro e periferia, del ruolo svolto da minoranze abbastanza numerose da costituire una comunità (o società) parallela.

Il punto è però che, anche in una democrazia diretta, ci sono elementi di carattere culturale ed economico che la democrazia presuppone, di cui abbisogna, ma che essa stessa non può garantire.

In terzo luogo, la scomparsa a livello politico-culturale di qualsiasi ambizione collettiva, che si riflette nell'impossibilità di formulare obiettivi per il futuro del paese, o persino di pensare al futuro tout court.

De Gasperi addirittura fu figlio dell'Impero Asburgico.

Einaudi era figlio del vecchio Piemonte sabaudo, austero, magari provinciale, ma pur sempre di grande integrità e rigore.

L'esistenza e il buon funzionamento della Repubblica Italiana presuppongono che tali virtù siano diffuse tra la popolazione e la sua classe dirigente, ma non viene spiegato da dove tali virtù provengano, né come esse possano essere trasmesse alle generazioni successive.

La preservazione di queste virtù civiche non ha funzionato, e anzi il Paese è diventato un gigantesco incubatoio del più devastante degrado antropologico e sociale cui esso abbia assistito negli ultimi secoli.

Questo fenomeno non è certamente localizzabile solo in Italia, ma si riscontra in tutta l'Europa occidentale e negli Stati Uniti.

All'interno di questo quadro di crisi, si assiste alla produzione di un discorso ideologico per la protezione dello status quo, quello di un modello degradato che riproduce degrado, con la stigmatizzazione di chiunque cerchi di affermare che la traiettoria attuale è quella sbagliata.

Di qui la continua autoreferenzialità di chi gestisce il potere, l'isolamento dai veri problemi della società, l'impermeabilità alla critica.

Occorre un cambiamento di cultura politica che, temo, non arriverà se non in conseguenza di un ulteriore, forte aggravamento della situazione - e, forse, troppo tardi.

Tra i fattori cruciali che oggi minacciano la stabilità e la sopravvivenza stessa delle democrazie occidentali ci sono senza dubbio il capitalismo finanziario "estremo", che sta producendo immense distorsioni e inasprendo le disuguaglianze sociali, e la capacità (senza precedenti nella storia) dei governi di avvalersi della tecnologia per spiare i cittadini (emblematico il caso Snowden/Datagate).

Possono le democrazie sopravvivere in tale contesto senza esserne del tutto snaturate?

Questo non vuole essere tanto un richiamo alla necessità di restaurare una "vera democrazia".

Non perché ciò non sarebbe auspicabile, ma perché ben altri problemi, molto più gravi, sovrastano l'Italia e l'Europa, minacciando l'esistenza stessa della comunità politica, sia essa democratica o meno.

Del resto, sono proprio lo sviluppo esponenziale dei mezzi di manipolazione della società attraverso la gestione dei flussi d'informazione e le dinamiche dell'economia industriale globalizzata a rendere la democrazia in senso classico sostanzialmente impossibile fino al momento in cui queste condizioni non cambieranno.

Ciò potrebbe non avvenire per molto tempo. Personalmente, ritengo che una ripresa del modello democratico nei prossimi decenni sia improbabile.

A questo proposito, vorrei brevemente approfondire due punti:

a) Si tende a sottostimare le conseguenze dello scandalo Datagate.

Questo è perfettamente comprensibile, perché un'attenta riflessione su quest'ultimo condurrebbe direttamente allo scetticismo circa (ancora una volta) la "democraticità" del sistema politico in cui viviamo a livello sia nazionale, sia globale.
Anche supponendo ottimisticamente che Datagate ci abbia rivelato tutto quello che accade nel mondo dell'intelligence, il quadro è sconcertante.
E in Italia dovremmo ricordarci di uno scandalo analogo riguardante Telecom.
Se è possibile spiare tutti i leader politici, è automaticamente possibile ricattarli.
Se l'intelligence è in grado di controllare i media, può creare fatti inesistenti e sopprimere le notizie su fatti effettivamente accaduti.
Se è possibile intercettare le comunicazioni degli operatori economici e anticiparne le mosse, il mercato è sistematicamente falsato.
Anche solo questi tre elementi inficiano in maniera definitiva e inappellabile i tre pilastri fondamentali del sistema liberal-democratico classico: libertà di coscienza politica, libertà di stampa, economia di mercato.

b) Il processo di globalizzazione delle attività produttive, nonché la loro crescente automazione e concentrazione, pongono anch'essi, come noto ormai da molto tempo, una sfida impossibile alla democrazia, se questa è definita come la forma politica della piccola proprietà diffusa dei mezzi di produzione, della piccola e media impresa, della "classe media", che infatti si avvia a ridursi ai minimi termini.
Ma anche per quanto riguarda quella che un tempo si sarebbe chiamata la "classe lavoratrice", le sue chance di contare qualcosa a livello politico si riducono continuamente per effetto della possibilità per il capitale (per usare una terminologia marxista) di accedere a un'infinita disponibilità di manodopera in una popolazione mondiale che, nell'arco di due generazioni, si è triplicata.
Se la scarsità di un bene ne determina il prezzo, è chiaro che il costo della manodopera nel mondo "ex-ricco" continuerà a scendere sino a raggiungere un equilibrio con quello dei paesi in via di sviluppo.

Non vedo la possibilità di ristabilire un'autentica democrazia sino a quando fenomeni di questo tipo continueranno a proliferare dietro il sottile velo del tout va bien.

Ci troviamo di fronte al rovesciamento, quasi si direbbe al contrappasso, dell'ideologia neo-liberale e della sua concezione dell'economia di mercato.

Tale approccio al problema economico diventò dominante anche (e, forse, soprattutto) in risposta all'assenza di un'autentica crescita economica nel mondo anglo-americano a partire dalla crisi degli anni Settanta.

Sfruttando la centralità del dollaro, di Wall Street e della City di Londra, il capitalismo anglosassone è riuscito nell'impresa di rilanciare i numeri della sua economia creando di volta in volta una successione di "manie" o "bolle" finanziarie.

Di particolare importanza sono state la bolla di Internet alla fine degli anni Novanta e quella del mercato immobiliare del 2004-07.

Quest'ultima dev'essere osservata con attenzione. È del tutto evidente che tale bolla trae origine dalle politiche monetarie eccessivamente espansive della Federal Reserve, le quali stimolarono un'eccezionale crescita del credito, con ritmi superiori al 10% annuo.

In quel periodo la politica monetaria americana riuscì a produrre un aumento generalizzato del valore nominale di quasi tutte le classi di asset (con l'eccezione del dollaro stesso).

Al collasso del 2008-09 si è risposto con una colossale opera di rilancio creditizio, divenuta globale con la partecipazione delle banche centrali dell'Inghilterra, del Giappone e, in maniera più sottile, della Banca Centrale Europea.

Anche se già il compromesso della moneta non convertibile in metalli preziosi ( fiat currency) era basato su un altro difficile compromesso tra credibilità e fiducia, la gestione dell'offerta di moneta era pur sempre improntata al principio economico di scarsità, e all'idea del denaro come deposito di valore e lubrificante degli scambi, nell'ottica di una rapida circolazione dello stesso.

Oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa nella quale, soprattutto con riferimento al dollaro in qualità di moneta globale, l'offerta è potenzialmente illimitata e, dunque, non vi è scarsità.

Ogni perdita può e deve essere appianata, secondo il principio del too big to fail e per la protezione del sistema finanziario.

Naturalmente la "fine della scarsità di denaro" non è per tutti, ma solo per coloro che si trovano in una posizione (politica) privilegiata di accesso diretto al credito delle banche centrali. Si passa dunque da un sistema basato - almeno in teoria - sulla concorrenza e sul merito a uno basato sulla prossimità personale alle banche centrali e a chi le gestisce.

Un sistema dai tratti quasi feudali (aprire una banca è una concessione).

La dottrina neo-liberale teorizzò l'indipendenza e il ruolo dei banchieri centrali secondo la discutibilissima idea che la gestione del denaro non costituisca un fatto politico, e che dunque debba essere affidata a tecnici sottratti a qualsivoglia coinvolgimento, nonché controllo, di carattere politico.

Da un lato coloro che pensano in termini eccezionalistici, si direbbe "all'americana", che si riconoscono nel motto this time is different, per i quali siamo entrati in una nuova era della Storia (torniamo all'argomento quasi-millenaristico à la Fukuyama) nella quale le vecchie leggi dialettiche di azione e reazione non sono più valide, e ci si è finalmente liberati dei limiti della condizione umana precedente.

Dall'altro, coloro che pensano di essere in presenza di un'aberrazione temporanea, che le leggi del mondo come le conosciamo rimangano valide nonostante tutto, e che il castigo colpirà prima o poi coloro che hanno spinto la propria hybris là dove non è consentito.

Personalmente ritengo che non siamo entrati in una nuova era della Storia.

Ma è perfettamente possibile che la manipolazione dei mercati continui ancora per lungo tempo. Del resto, è anche probabile che la nemesi degli eccessi attuali prenda forma, ancor prima che sui mercati finanziari, sul piano del rischio geopolitico e sociale.

Come, in qualche modo, sta già accadendo.

La bolla che è stata creata dopo il 2009 con il contributo determinante delle banche centrali sembrerebbe dimostrare come vi sia ormai una manifesta e cronica incapacità delle economie occidentali di crescere in assenza di "stimoli" artificiali molto forti (come i tassi a zero e il QE, per l'appunto).

A cosa è dovuta, secondo Lei, questa sempre più manifesta incapacità?

L'incapacità di crescere può essere ricondotta a diversi fattori. Da un lato c'è il problema che la "crescita" non può certo continuare all'infinito, e questo vale soprattutto, in un pianeta finito, quando per crescita s'intende l'espansione economica in senso estensivo, piuttosto che intensivo.

Anche se personalmente ritengo che il mondo occidentale dovrebbe fare molti più sforzi per raggiungere un migliore equilibrio demografico, è chiaro che la popolazione non può crescere all'infinito.

In Occidente si è assistito a una pesante de-industrializzazione, con il trasferimento delle attività manifatturiere verso Oriente, e il ripiegamento verso l'espansione dei servizi. Tuttavia, quanti di questi servizi hanno davvero un valore aggiunto?

Negli Stati Uniti i servizi finanziari sono una parte cospicua del PIL, in continua ascesa dagli anni Settanta.

Eppure Paul Volcker, ex governatore dalla Federal Reserve, ha tranquillamente affermato che di tutte le innovazioni finanziarie negli scorsi decenni, solo l'introduzione del bancomat avrebbe prodotto benefici sostanziali per la società.

La tesi, formulata inizialmente dall'economista americano Robert Gordon, è controversa ma non implausibile. Gordon sostiene che le scoperte e innovazioni degli ultimi trent'anni non hanno avuto il medesimo, rivoluzionario effetto sulla vita economica se paragonato a quello che caratterizzò la transizione dalla società del cavallo, delle lavandaie e della ghiacciaia alla società dell'automobile, della lavatrice e del frigorifero.

Il nostro modo di abitare, di nutrirci, di spostarci non è in fin dei conti cambiato molto dagli anni Ottanta o oggi.

Molte delle invenzioni prospettate nel passato non si sono materializzate o sono state abbandonate, pensiamo al volo commerciale supersonico, o ai viaggi spaziali.

Ciò non significa minimizzare la rivoluzione della telefonia o di internet, né che altre scoperte rivoluzionarie non siano possibili.

Lo sono, ma si tratta di obiettivi più ardui che in passato. Un conto è combinare meccanica di precisione e ingegneria elettrica per produrre oggetti più o meno direttamente manipolabili dall'uomo, sfruttando le leggi fisiche più elementari.

Cosa molto diversa è operare nell'infinitamente piccolo e nell'infinitamente complesso per accedere a usi strumentali della biogenetica, delle neuroscienze, della fusione nucleare, dell'intelligenza artificiale, che dovrebbero costituire la prossima frontiera.

Un'ultima domanda sull'Italia, di cui Lei ha scritto con grande lucidità in più di un'occasione.

Come giudica gli ultimi provvedimenti adottati dal governo Renzi, dal tanto contestato Jobs Act alla Legge di Stabilità 2015?
Sul governo Renzi non ho cambiato opinione, si tratta di un'operazione d'immagine abilmente costruita in un quadro di totale discredito degli altri attori politici.

Come ho scritto in uno degli ultimi articoli, le cosiddette riforme di cui il governo si è fatto promotore sono estremamente limitate, di una lentezza sconcertante, e in definitiva non cambiano nel modo più assoluto la situazione del Paese, né nell'immediato né nel futuro.

E neppure potrebbero esserci riforme qualitativamente migliori nel contesto della cultura politica oggi prevalente - un curioso miscuglio di neo-liberalismo (ormai completamente superato in termini storici), radicalismo post-sessantottino, pauperismo post-conciliare cattolico, europeismo acritico.

Altri elementi, come la totale perdita di controllo del territorio e delle frontiere da parte dello Stato, sono di una gravità inestimabile.

Il primo problema dell'Italia (e dell'Europa), molto più della corruzione, risiede anzi proprio nella sua cultura politica, nel modo di leggere se stessa e il mondo.

Redattore e traduttore freelance, twitter: @amuzzarelli


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