Sul genocidio, ancora

Creato il 17 aprile 2015 da Malvino
Quando c’è controversia sul significato di un termine, che quasi sempre è controversia su quanto sia corretta o meno una sua attribuzione, penso non ci sia niente di meglio che cominciare a ragionare sulla sua origine, cercando di trovare il come, il dove e il quando s’è fatto significante. E tuttavia questo non basta, perché non è affatto raro che, col tempo, un significante possa cambiare significato, e anche di molto, com’è nel caso di ecatombe, termine che nacque nel IV secolo a.C. per significare l’uccisione di cento buoi (εκατον βους), offerti in sacrificio a una divinità. In realtà, c’è chi sostiene che cento fossero le zampe degli animali sacrificati, che dunque erano solo venticinque, e non necessariamente buoi. Di fatto, quando oggi diciamo ecatombe, l’idea non corre necessariamente a un’offerta votiva, né necessariamente all’uccisione di animali, venticinque o cento che siano. Sostanzialmente diverso, invece, è il discorso relativo ai termini che nascono in un contesto scientifico per dare un nome a entità materiali o concettuali che ovviamente ne sono sprovviste al momento in cui vengono postulate, scoperte, inventate, ecc. In questo caso, il significante resta legato per lungo tempo al significato per il quale il termine è stato coniato, anche quando l’entità alla quale è stato attribuito viene ad appalesare caratteristiche che sembrano farlo diventare improprio, com’è nel caso dell’atomo, che α-τομος è rimasto anche dopo la scoperta che è possibile scomporlo in particelle subatomiche. La questione relativa all’uso del termine genocidio rimanda ineludibilmente alla sua origine, che trova ragione nel tentativo di definire il tratto distintivo di una particolare fattispecie criminosa, ravvisabile in alcune eliminazioni di massa, e in altre no. Tale tratto distintivo è quello relativo alla finalità posta nell’atto criminoso quando questo prenda a oggetto il γενος della massa che intende eliminare, e cioè il carattere che conferisce un comune elemento identitario agli individui che la compongono. Col genocidio, insomma, siamo dinanzi al programma di eliminazione di quell’elemento identitario (nazionale, etnico, religioso) attraverso la soppressione di tutti gli individui che lo rappresentano con la loro mera esistenza, così intesa come «vita indegna di essere vissuta» (Hannah Arendt). Per quale ragione Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio, massacro, eccidio, ecc.? Semplice. Perché con la Shoah era venuto a rendersi tragicamente evidente, non foss’altro perché esplicitamente dichiarato dai carnefici, quello che era il fine ultimo di quella carneficina: l’annientamento degli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio degli ebrei, insomma, trovava ragione nel solo fatto che essi fossero ebrei, sicché nell’Endlösung der Judenfrage l’attenzione andava posta sul fatto che la questione (-frage) fosse l’esistenza stessa degli ebrei in quanto ebrei e che la soluzione (-lösung) non potesse che essere il loro completo annientamento. Anche per questo la definizione di olocausto appare altrettanto pertinente: per i nazisti era tutto (ολος) ciò che era ebreo a dover essere bruciato (καυστος). Sappiamo, infatti, che in Germania e in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi sopravvissuti ai campi di sterminio. Nel caso degli armeni che nel 1915 furono sterminati in un numero che le varie stime danno tra i 200.000 e i 1.600.000, possiamo parlare di genocidio? Gli armeni furono eliminati in quanto armeni? Fu l’elemento identitario nazionale, etnico, religioso che li contraddistingueva nel motivare il loro massacro? Se sì, come spiegarci il fatto che molti armeni furono risparmiati dalla persecuzione, dalla deportazione e dall’eccidio anche se il loro destino era nella disponibilità di chi intanto ne massacrava una gran quantità? Richiamando alla memoria la situazione venutasi a creare nelle regioni orientali della Turchia allo scoppio della Grande Guerra, con la paventata ipotesi che gli armeni dell’Anatolia potessero unirsi ai russi, coi quali invece i turchi erano in conflitto, con ciò causando alla Turchia la perdita di controllo sui territori da essi abitati. La soluzione fu trovata nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa. Gli armeni, dunque, non furono sterminati in quanto armeni, né in quanto cristiani. Ragionevolmente è da ritenere che, se analogo problema fosse sorto nelle regioni meridionali della Turchia, ad essere deportati e uccisi sarebbero stati i curdi, anche qui non in quanto curdi. È questo che a mio modesto avviso rende impropria la definizione di genocidio per lo sterminio che cent’anni fa i turchi consumarono a danno delle popolazioni armene della Turchia orientale. Questo non attenua in alcuna misura la gravità del crimine che fu commesso, che resta enorme. Credo perciò che oggi si debba pretendere dalla Turchia di non sminuirne l’entità, senza però chiederle l’ammissione di genocidio, a meno che non si voglia ottenere, come mi pare sia nelle intenzioni di molti, un ulteriore suo irrigidimento su posizioni che progressivamente la allontanino sempre più da quell’Europa cui Kemal Atatürkl’aveva così sapientemente orientata.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.

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