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Sull’asfalto blu.

Da Parolesemplici

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Era lì di fronte allo specchio. Si passò una mano sul collo, poi sulla guancia destra. Pungeva. Aprì l’acqua, calda, si bagnò le mani e i polsi. Poi si bagnò il viso ruvido. L’acqua calda ammorbidiva la barba e la pelle. Prese la schiuma dall’armadietto di fronte, l’agitò e ne spruzzò un po’ sul palmo della mano destra. Iniziò a spalmarla sul collo, sotto il mento, sulle guance, intorno alla bocca, sotto il naso. Il rasoio blu era di plastica, mise la lama sotto l’acqua e con un gesto automatico cominciò a radersi dall’alto in basso, prima sul collo poi ai lati del viso, lentamente e con forza. Piano, le lame si muovevano sotto il mento, sotto le labbra, sotto il naso, rintonavano sulle guance fresche.

Dopo aver pulito le lame, diede un’altra passata al tutto. L’acqua era tiepida, ma stava per finire. Passò un’altra volta sul collo, quella era la parte più scomoda. Infine lavò per bene il rasoio blu di plastica e con acqua bollente si lavò il viso, eliminando la schiuma da tutti gli angoli e da tutti gli spigoli.
Prese l’asciugamano e lo tamponò sul volto e sulla fronte. Era asciutto. Aprì l’armadietto, posò il rasoio e prese la crema dopobarba, profumata e fresca. La spalmò con tutte e due i palmi in un movimento antiorario. Le zone più delicate divennero rossastre, ma era la reazione al dopobarba. Svanì presto. Chiuse il tubetto del dopobarba e lo mise nell’armadietto.
Si guardò un’ultima volta allo specchio, poi spense la luce.

L’asfalto blu. Respirava insieme alle foglie e a tutta la polvere degli ombrelli. Uscì di casa prendendo il soprabito, chiuse la porta e scese i tre scalini dell’atrio. Camminò fino al semaforo di fronte al negozio di fiori. Era chiuso. Aprì l’ombrello, pioveva, da quasi un’ora. Arrivò, costeggiando il marciapiede basso, accanto all’edicola. Comprò il giornale, nè lesse il titolo e se lo mise sotto il braccio. Con l’ombrello rosso, raggiunse il tabaccaio. Mi dia il solito, si, tabacco da 25 grammi. No le cartine le ho, grazie. Tenga il resto. Uscì, riaprì l”ombrello, mise a fuoco la strada. Scattò una fotografia, senza flash. Può sempre servire, pensò. Si guardò le scarpe verdi, ma stavano diventando blu. Come l’asfalto. Si stavano sciogliendo, come nell’acido. Alzò gli occhi e l’ombrello, fiumi di blu sulla strada, torrenti di bianco e questo fiume correva, correva a perdifiato, si infilava nelle strade laterali, schizzava sulle macchine, si spalmava sui visi e sui volti di tutti i passanti. Si mise a correre, sempre più velocemente, senza una meta precisa. I semafori erano inghiottiti dall’acqua, persino i bambini nuotavano sulle strisce pedonali. Si toccò la fronte, era ancora profumata dal dopobarba. Rimase a piangere mentre con l’ombrello aperto cercava di volare nell’entrata del cinema. Ci stava riuscendo, quando l’ombrello gli scivola via e il vento se lo porta con sé. Era solo. Il soprabito grigio annaspava, le scarpe volevano dileguarsi il prima possibile. L’asfalto era ancora più blu, ma diventava anche arancio e macchie bianche.
Nuotò fino al negozio di fiori. Era aperto. E tutti fiori, dopo essersi bagnati di asfalto, divennero enormi, si arrampicavano sul soffitto, abbracciavano la commessa che rideva come non avesse mai riso in tutta la sua la sua verde vita. Si tolse il cappello ed entrò. Le pareti profumavano di pioggia e di nuvole appena sfornate. Erano gommose e parlavano tutte una lingua diversa. Gli chiesero quale fiore dovesse comprare. Rispose che un’azalea andava bene. La fece incartare e la custodì nella tasca interna del soprabito.
Uscì, col fiatone. Si coprì i capelli con il giornale del giorno dopo e dopo pochi passi intravide una bambina. Era vestita di rosso. Capelli rossi, guanti rossi. Non nuotava. Passeggiava, pattinando con le scarpe rosse e lucide, senza essere bagnata da niente. Aveva occhi blu e ciglia rosse. Soffiava bolle di sapone verdi con un foglio di carta e scriveva tutto ciò che riusciva a vedere, senza mai distogliere gli occhi dall’asfalto blu.
Si guardarono, fu un attimo brevissimo. Poi lui continuò riprese a correre. Le gambe chiedevano aiuto, le dita dei piedi imploravano pietà. Ma continuò e arrivò alla libreria. Gialla, una spremuta di sole. Con scaffali dorati e libri di ogni materiale e in ogni lingua. Ne prese uno e scottava, lo rimise al suo posto.
Faceva caldo e si tolse il soprabito e il cappello. Si sedette su una sedia scomoda e con gli occhi sgranati pensò a tutto quello che aveva visto. L’azalea era ancora intatta, profumava ancora di pioggia. Si addormentò.

Panchine arrugginite. Ali d’uccelli tra i rami. Il piccolo ponte sul laghetto, pieno di piccioni e di tartarughe in cattività. Le voci anziane di vecchi col cappello che si mischiavano a quelle giovani di bambini sorridenti. Sentì e vide tutto questo, aprendo lentamente gli occhi. Era tutto asciutto e con i colori giusti, naturali. Quanto ho dormito? Pensò. Chi mi ha portato qui? I libri…Quanti libri ho letto? Quali fiori ho comprato? E l’ombrello? Dove il mio ombrello?
Ritornò a casa, stremato. Appese il soprabito e il cappello. Andò in bagno e si guardò allo specchio. A lungo, fissando il riflesso di se stesso nel’iride marrone. Era tutto normale.
Rintonò in salotto e sentì un odore di pioggia, proveniva dal soprabito. Era l’azalea. Ed era splendida. Come i marciapiedi. Come il negozio di fiori. Come le scarpe. Come i semafori. Come l’entrata del cinema. Come la bambina che scivolava sull’acqua. Come la libreria. Come quando tutto era come sull’asfalto.

 


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