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sull'inutilità di parole come "mai più"

Creato il 29 ottobre 2015 da Sara
sull'inutilità di parole come Da svariati anni, da quando sono single e posso disporre liberamente del mio tempo, tra fine ottobre e novembre me ne vado sempre in Israele per qualche settimana e lo farò anche questa volta, domenica mattina spicco il volo, malgrado i tempi difficili, ancora più difficili del solito.  Ammetto di aver cambiato i miei programmi, ho disdetto l'albergo per la settimana prevista a Gerusalemme, vorrà dire che il soggiorno si dividerà fra Tel Aviv e Haifa; certo che di coltelli affilati in circolazione ce ne sono dovunque e l'imprevisto da thriller  sta regnando sovrano in tutto il Paese, ma la Gerusalemme d'oro, di bronzo e di luce, come faceva il ritornello di una famosissima canzone, è più presa di mira perché la più simbolica per eccellenza. Dovevamo partire in due, ci doveva essere l'inseparabile amica Gastone che dopo lunghi ripensamenti si è tirata indietro; la posso capire, lei mi ha spesso accompagnata, ma la sua è curiosità da turista, Tel Aviv ormai la conosce come le sue tasche e chi glielo fa fare di rischiare la pelle per una vacanza?
La mia storia è diversa, io là ci sono nata, ci "tengo famiglia" e amici e se i miei cari in quella minacciosa precarietà ci vivono 365 giorni all'anno, anche se per un breve periodo lo posso e lo devo anch'io. 
 Dagli amici italiani ho ricevuto mail e telefonate con chiari intenti dissuasivi, -non sarai mica matta a voler partire in questo momento, lascia perdere, rimanda a un' altra occasione-. Certo mi fanno piacere  affetto e interessamento alla mia persona, ma chi lo sa, forse non mi basta più, forse mi aspetterei maggiore attenzione, una solidarietà più partecipata non solo nei miei confronti, ma verso il mio paese e la sua gente.  L'atteggiamento collettivo invece è come minimo indifferente o ambiguo quando non chiaramente schierato, dall'altra parte s'intende. Grande confusione nell'opinione pubblica fra vittime e aggressori, fra chi studia nel Talmud che "chi salva una vita salva il mondo intero" e chi sprona i suoi giovani a farsi martire sgozzando qualcuno. Quel minuscolo angolo di mondo, un fazzoletto di terra ostica e sassi trasformato in giardino dalla tenacità di uomini che ci hanno creduto, che si attraversa in poche ore da una punta all'altra, gode il privilegio di passare per l'ombelico di tutti i mali, al centro di una lente d'ingrandimento che i media con notizie parziali e distorte provvedono puntualmente a deformare. 
Non mi sogno neppure lontanamente di voler vivere in un mondo in cui tutti la pensano come me, sarebbe orribile e certamente anche Israele, come ogni stato, ha commesso e commette degli errori politici, ma mi sembra lecito auspicare una visione meno manichea da parte di molti e soprattutto il desiderio di documentarsi più approfonditamente prima di emettere pareri e giudizi. A Tolosa si muore negli asili, a Parigi mentre si fa la spesa al supermercato, in Inghilterra certe università chiudono gli scambi con quelle israeliane, credevo che scienza e cultura avessero altre aperture valoriali, obbiettivi alti. In Islanda, e non è il solo paese, si è appena votato il boicottaggio dei prodotti israeliani e giustamente un deputato alla Knesset (il Parlamento israeliano) si è chiesto se il boicottaggio concerne anche quei rappresentanti del milione e mezzo di palestinesi israeliani che siedono accanto a lui in parlamento nell'unica democrazia del Medio Oriente, se il boicottaggio comprende tutte quelle famiglie arabe che in Israele vivono, lavorano e possono mantenere decorosamente la loro famiglia, se il boicottaggio riguarda tutti quegli arabi palestinesi dei territori che vengono regolarmente curati negli ospedali israeliani, se il boicottaggio include anche il colosso Google che si serve ampiamente della tecnologia israeliana. 
O è forse maledettamente ancora questione di pregiudizio? A quanto pare anche nel nuovo millennio i figli di Abramo possono godere della simpatia internazionale solo in veste di vittime, ma se dopo 2000 anni di pogrom e di storia randagia e dopo le performances del XX° secolo si sono stufati del ruolo d'agnello e vogliono difendersi, allora no, vengono subito additati come lupi, aggressori colpevoli. Ecco perché non sopporto più di sentir pronunciare in tante occasioni istituzionali e pubbliche, una per tutte vedi il Giorno della Memoria, parole come "mai più". Mai più cosa? L'indifferenza? L'intolleranza? La disinformazione? L'atteggiamento anti-ebraico? Ma per favore, siamo seri, basta guardarsi intorno. Il 21 ottobre ho partecipato a una fiaccolata di solidarietà per Israele, presenti con i loro sostegno e discorsi esponenti delle Istituzioni pubbliche, di vari partiti, di associazioni, ma fra il pubblico, non particolarmente folto, per lo più solo ebrei. L'intervento che più mi ha toccato l'ha espresso Andrée Ruth Schammah, anima e motore del Teatro Franco Parenti. Ha detto che non voleva parlare di Israele, ma di noi lì riuniti per quell'occasione con camionette della polizia che sbarravano la strada a sinistra e a destra. Mai più? Nel 2015 a Milano una manifestazione pacifica di due- trecento persone aveva bisogno di essere protetta da uno schieramento di polizia, come del resto avviene ovunque davanti ai nostri luoghi. E' contro questa constatazione, apparentemente banale, che vanno a sbattere tutti i bei discorsi, tutti i "mai più", "sempre e ancora" caso mai, se proprio piace uno slogan. E che non mi si dica che confondo identità ebraica con atteggiamento anti-israeliano, distinguo che va per la maggiore. Penso, e non credo di essere la sola, che l'antisemitismo abbia soltanto cambiato volto, abbia digerito i politically correct, si sia modernizzato, ma in realtà è solo una nuova faccia della stessa vecchia moneta.  Non sarò smentita se scrivo che per tutti gli ebrei che vivono in giro per il mondo Israele rappresenta una parte integrante e insopprimibile della loro identità.
Non si può certo accusare il popolo tibetano di essere guerrafondaio, aggressivo o imperialista, figuriamoci, è l'esemplificazione della "non violenza"  per antonomasia, vive in parte in esilio perché defraudato della sua terra occupata,  eppure non "fa la pace" con la Cina. Come mai? Se bisogna essere in due per i conflitti, bisogna anche essere in due per gestire la pace ma  l'altro partner, la Cina, non c'è, si sottrae al confronto. Sono anni che dall'esilio indiano sua Santità il Dalai Lama e l'attuale Primo Ministro Lobsang Sangay  chiedono di poter incontrare, comunicare, ma la Cina rifiuta di riceverli, di aprire una qualsivoglia forma di dialogo. Come si fa a gestire un problema con chi rifiuta di sedersi intorno a un tavolo, con chi implicitamente rifiuta di riconoscere l'esistenza in vita dell'altro?
Con i vicini Giordania e Egitto che l'hanno  perseguita, e il Presidente Sadat è stato assassinato per averne avuto il coraggio, Israele ha dimostrato di essere capace della pace. "Due popoli due paesi" invoca per quel puntino in Medio Oriente il mondo occidentale e anche Israele è pronto per questa realtà, lo era fin da quando si è fatta la spartizione del territorio, fin da quel 14 maggio 1948 in cui è nato lo Stato di Israele. Peccato che questa nuova situazione storica non sia mai stata accettata veramente, dal fronte arabo-palestinese subito nel '48 una guerra offensiva seguita da diverse altre, peccato che si voglia far scomparire Israele dalla mappa geografica dell'area, obbiettivo più volte pubblicamente dichiarato. Forse un parallelo azzardato il mio, certo situazioni storiche e geopolitiche molte diverse quelle del Tibet e di Israele, ma in comune ci vedo le stesse difficoltà per via di un partner che si nega o che nega  la controparte.
Comunque restiamo tranquilli e fiduciosi, è attualmente l'Arabia Saudita, punta di diamante delle libertà individuali e collettive, il Presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i Diritti Umani alle Nazioni Unite. 
       

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