Magazine Attualità

Sull’Italglese e il Pronto Soccorso Linguistico: alcune riflessioni sui consigli del professor Francesco Sabatini dell’Accademia della Crusca.

Creato il 15 marzo 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
cartolina2di Rina Brundu. Di tanto in tanto ci si sveglia, si accende il televisore e ci si imbatte in una discussione mediatica che ha una sua credibile ragion d’essere. Mi è accaduto stamattina quando ho acceso il televisore su RAI1, in tempo per vedere l’angolo di “Pronto Soccorso Linguistico” del programma Uno Mattina in Famiglia, il quale si avvale dell’expertise tecnico del professor Francesco Sabatini Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca (di cui è già stato Presidente dal 2000 al 2008) e professore emerito dell’Università degli Studi Roma Tre. L’argomento della settimana era l’italglese, quel misto di inglese e di italiano che sembrerebbe vada per la  maggiore oggidì, nonché “l’eticità” a tutto tondo del suo usage.

Come appena dimostrato l’argomento mi riguarda direttamente, anche se nel mio caso la questione è un po’ più complessa e quindi desidero spenderci due parole. Quando tanti e tanti anni fa (troppi ormai), io mi trasferii in Irlanda, parlavo già l’inglese. Lo parlavo molto bene dato che mi ero laureata in Lingue e soprattutto perché in quel periodo la mia prima passione era la letteratura elisabettiana, con alcuni testi (l’Otello, per esempio), che avevo “spulciato” lemma per lemma. Con una collega universitaria avevamo anche la buona abitudine di parlare in inglese tra di noi e io già mi ritrovavo a pensare in quella lingua. Grammaticamente parlando il mio know-how dell’idioma di Shakespeare era sicuramente migliore a quel tempo perché, come tutti gli studenti ligi al dovere, mi facevo scrupolo di usare la regola corretta. Un dovere che, occorre dirlo, viene meno quando quella lingua straniera diventa la tua e allora impari a gestirtela come un native-speaker, in maggiore libertà insomma.

Accadde poi che durante i primi 5-6 anni di permanenza in Irlanda, io avessi zero contatti col mondo italiano di provenienza. A quel tempo RyanAir veniva ancora guardata con sospetto, mentre l’usage massiccio di Internet era decisamente agli albori. Consequentia rerum fu che mi trovai in una sorta di trappola linguistica inglesizzante i cui deleteri effetti gli avrei compresi pienamente soltanto dopo. Per esempio, non sapevo allora quanto sia facile perdere la nostra lingua natale se non la esercitiamo, quanto quella stessa, specialmente in età giovane, sia facilmente plasmabile. To cut a long story short, mi “risvegliai” dall’incubo solo a un certo punto, ovvero quando decisi di cominciare a pensare seriamente alla scrittura, al mio datato sogno scritturale, una decisione che poi portò alla pubblicazione di “Tana di Volpe” (Flaccovio Editore, 2003), il mio primo libro.

Fu lì che capii che esisteva un problema: io non scrivevo più in italiano standard ma in una lingua che chiamare italglese sarebbe senz’altro più appropriato. Risparmio in questa sede tutte le problematiche e le cogitazioni che mi ha portato a fare lo status-quo: dovevo “purificarmi”? Dovevo smetterla di usare tutti quei “filler” che in italiano sono ridondanti? Dovevo smetterla di infarcire i miei scritti in italiano con quei termini inglesi che per gli altri non avevano senso ma che per me facevano il conveying del vero significato? Dovevo smetterla di usare tutti quei possessivi?  Dovevo smetterla di gestirmi le maiuscole come meglio credevo?  Dovevo smetterla di sentirmi infastidita da un editign che giudicavo insulso quando non avvilente delle necessità dell’anima? E cosa ne avrebbero pensato i quattro lettori e i miei vecchi insegnanti di italiano che ricordavano una alunna knowledgeable in materia?

La risposta è arrivata nel tempo ed è per me definitiva adesso. La risposta è stata data dall’idea che se io in un futuro prossimo vorrò essere uno spirito-che-scrive a tempo pieno, se mi sento davvero tale, io non posso e non potrò rinnegare la mia esperienza di vita. Questo per dire che nel mio caso non si tratta di un usage incoscente dell’italglese ma dell’impiego naturale di una mia lingua tutta speciale che si è creata nel tempo mercé il mio essere figlia di due patrie di diverse, di un destino che mi ha portato ad essere, ammettiamolo… né carne né pesce. Ne deriva che è proprio su questo incontro a metà di culture, anche linguistiche… che io vorrei costruire il mio stile scritturale futuro. Trovare insomma una sintesi valida. Non mi illudo, so che non sarà facile, che prenderà tempo, come ben dimostrano i miei mille esperimenti online. Fortunatamente mi assiste una determinazione a non mollare, aiutata dalla coscienza del conoscere la regola, quindi di avere fatto i miei compiti a casa, così come dal perfetto understanding delle necessità, anche morali, deontologiche, che ho di volerla adattare alle esigenze del mio spirito e della mia storia. Insomma, la mia scrittura sono io non viceversa!

Come detto si tratta di una situazione, di uno status-quo straordinario che può valere solo per il caso particolare. E in virtù di questa particolarità io continuerò ad usare nei miei scritti questo curioso mix di italiano e di inglese codificato dentro strutture grammaticali e sintattiche loro malgrado meticce, non-nobili ma che non potrò e non vorrò cambiare. Mai però consiglierei a uno studente di procedere in codesta maniera, così come mai gli consiglierei di imitare la libertà scritturale di James Joyce quando intento a fare un compito in classe: per ogni cosa c’é un tempo, per ogni cosa c’é un luogo!

E questo mi riporta ai consigli del professor Sabatini di questa mattina. Egli sosteneva che laddove si può usare un termine italiano meglio sarebbe farlo, piuttosto che venirne fuori con un termine “cool” forestiero. Ancora, laddove questo termine è diventato parte del nostro codice linguistico, bisognerebbe piegarlo alle regole di quel codice domestico, dotare tale parola delle corrrette desinenze, etc etc. Concordo con questa visione delle cose; concordo meno però quando queste visioni non tengono conto del “dettaglio” che può inficiare la validità della logica discorsiva. Per esempio, non concordo quando il professore sostiene che il termine “centralino” dovrebbe essere usato al posto di “call-center”. A mio avviso infatti il termine call-center connota un mondo completamente diverso dall’environment lavorativo che denota e connota il termine “centralino”. Per meglio dire, occorrerebbe stare attenti anche a queste sfumature imposte dai tempi moderni che cambiano se non si vuole fare una magra figura nel contesto dialettico quotidiano.

Non a caso il principale elemento “stonato” che ho notato durante la pur gradevole discussione, è stato il fatto che non ci si è soffermati sul fattore “disturbante” per eccellenza: ovvero il fattore digitale che ha cambiato le carte in tavola e le regole del gioco come mai era accaduto prima; un elemento che volenti o nolenti porta tutti quanti (anche i francesi più nazionalisti) a “piegare” il principio puristico linguistico alle necessità dell’usage, pena l’esclusione più completa da quell’interminabile “discorso” multilinguistico che propone la Rete ogni giorno e che, ci piaccia o no, è la conversazione da seguire.

Di converso è senz’altro quanto mai importante oggidì che esistano strutture come la nobilissima Accademia della Crusca che vigilano sull’well-being della nostra memoria culturale. Senza tale memoria infatti non ci sarebbe più alcuna coscienza della nostra identità e allora perdersi nel melting-pot linguistico che sarà il nostro futuro prossimo (che già è il nostro presente), sarà davvero facile. Facilissimo!

Featured image source il sito dell’Accademia della Crusca.

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :