Magazine Psicologia
Di Marco Ferrini.
La nostra coscienza significa appunto gli altri dentro di noi e non si può vivere senza gli altri, rimuovendoli semplicemente barricandosi in casa, chiudendo la porta e accendendo la televisione. Tali rimozioni creerebbero infatti dei baratri, i samskara appunto, che impedirebbero una corretta integrazione della coscienza non solo non risolvendo nessun eventuale problema relazionale, ma accumulandone sempre di nuovi. Se di qualcuno si dice in maniera popolare che “è fuori di sé”, significa che quel qualcuno non ha più centratura, che non è più capace di fare un'analisi oggettiva della situazione in cui è immerso, oppure se si dice “è in guerra con se stesso”, significa che questa conflittualità interiore è ormai emersa all'esterno in maniera plateale. In realtà, tutti i conflitti esterni sono il frutto di una conflittualità interiore, con più o meno diretta connessione tra causa ed effetto nella coscienza del soggetto. Il soggetto non sa spesso a quale conflitto interiore deve collegare la conflittualità esterna, ma quello che è certo è che la conflittualità esterna è una proiezione della conflittualità interna. Talvolta può accadere che una persona sia in conflitto con un'altra senza che quest'ultima abbia parte nel conflitto o lo viva come tale: ad esempio A potrebbe essere in conflitto con B, senza che B sia in conflitto con A; in tal caso il conflitto c'è ma non è un problema di B, è un problema di A e A potrebbe anche non riconoscere che esso origina da una propria conflittualità interna, a causa di una mancata armonizzazione di diverse funzioni psichiche proprie, infatti generalmente il conflitto è inconscio. Tale mancanza di consapevolezza porta il soggetto a proiettare all'esterno, su differenti capri espiatori, un proprio vissuto interno ed in questo modo possono avere origine vere e proprie tragedie. Accettare che la conflittualità sia interna implica il doversi fare carico delle proprie responsabilità ed il doverle approfondire; questo è un atto estremamente onesto e coraggioso che dovrebbe essere incoraggiato in tutti. Rivolgendo la conflittualità all'esterno, invece, il soggetto crede di essere libero dal farsi carico delle proprie responsabilità; sarebbe assai più facile trovare il capro espiatorio all'esterno, tuttavia non risolverebbe i problemi, anzi, questi avrebbero la tendenza a moltiplicarsi, a complicarsi. L'interazione di determinate dinamiche genera infatti una rete pressoché infinita di azioni e reazioni, molte delle quali avvengono a livello inconscio, ignoto alla persona che si trova agita da esse, senza sapere cosa le stia effettivamente succedendo, ma trovandosi in balia di emozioni negative verso l'una o l'altra persona. Il non voler riconoscere veramente il reale problema può portare la persona a ricorrere alla “legge di compensazione”: per esempio una persona che proiettasse su altri una propria paura, come quella di essere rifiutata e reagisse ad essa rifiutando per prima gli altri; in questo caso la sfiducia provata dalla persona in questione verso sé stessa e attribuita erroneamente ad altri, per una compensazione, la porterebbe a non accettare gli altri in modo da non essere rifiutata. La legge della compensazione non risolve il problema che la scaturisce, al contrario contribuisce a crearne diversi altri ed, a loro volta, questi ne generano ulteriori altri ed il soggetto si trova infine ingabbiato in una costellazione di problemi dal quale non riesce a districarsi a meno che non chieda aiuto. Solo chiedendo aiuto la persona così imprigionata potrebbe ricominciare il percorso verso la luce, diversamente, continuerebbe a scendere verso il caos, il disordine, l'entropia.
Tratto da “Io e gli altri nel gioco della vita”, Corso serale di 3 lezioni tenute presso l'Aula Magna Fondazione Studi Bhaktivedanta, 20/27 Novembre e 4 Dicembre 2008.
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