Oggi voglio condividere una mia convinzione che so che non piacerà, soprattutto ora che il “diritto allo studio” è diventata una parola d’ordine della sinistra e uno degli infiniti “diritti” che non si spiegano né si contestualizzano più. Questa mia convinzione è che l’idealizzazione dello studio universitario sia una delle cause principali della crisi della nostra società e in particolare di tutte le difficoltà del mercato del lavoro e di tutte le frustrazioni della mia generazione. Ci stressa, ci insuperbisce, ci confonde.
L’università è il feticcio della destra e della sinistra: per la prima è il trionfo del merito, dell’impegno individuale, la ricetta per la crescita economica; per la seconda la possibilità di riscatto sociale, la formazione di un cittadino migliore, un diritto universale. Magari le parti politiche (e sociali) saranno in disaccordo su come e cosa finanziare all’interno dell’università, ma io non ho mai, mai, mai sentito nessuno metterla in discussione come istituzione e mettere in discussione il monopolio che detiene sulle vite dei giovani italiani e occidentali, per cui ormai lo studio universitario è un percorso quasi obbligato, e il lavoro subito dopo il diploma una disgrazia, se non addirittura una pigrizia.
Prima di addentrarmi nella critica, preciso che non sto chiedendo l’abolizione dell’università, men che meno un disinvestimento nella stessa orientato a limitarne l’accesso ai soli facoltosi. Io sto dicendo che bisogna aprire gli occhi sul fatto che l’università è UNA strada, non LA strada, e che l’università costa moltissimo alla società non solo economicamente ma per gli anni di attività giovanile che le sottrae, e che un non laureato può valere (intellettualmente, professionalmente, socialmente) tanto quanto un laureato, o in tanti casi anche di più.
L’università, ora come ora, è un sistema per tenere i giovani in uno stato improduttivo e quindi a carico della società per molti anni (nella maggior parte dei casi, almeno cinque), per far sentire chi ha studiato migliore di chi non l’ha fatto e quindi nel diritto di avere un lavoro più prestigioso e soprattutto un salario più alto, e per svilire le professioni per cui l’università non serve. Dà anche dipendenza: dei neolaureati o laureandi che conosco, al momento quasi tutti aspirano a un dottorato o lo stanno già facendo – anche persone che, francamente, per come le conoscono non possiedono le qualità intellettuali giuste e sarebbero meglio impiegate altrimenti.
Da quando sono nata non sento altro che dire: “studia!” Mai: “lavora!” Raramente: “dai una mano!” Non lo dice solo la mia famiglia, in cui contadini e artigiani hanno cresciuto i loro figli di modo che fossero professionisti ben pagati, i quali hanno poi messo al mondo una generazione che non si è ancora capito bene cosa farà; ma lo dicono ai loro figli gli operai, i contadini, le donne delle pulizie, lo dicono tutti. Mi viene in mente una sola eccezione tra tutte le persone che conosco. Non solo i genitori dicono: “studia, che ti trovi un buon lavoro”, dicono anche: “non lavorare adesso”! Quando ero in Canada, anche il figlio dell’ingegnere faceva qualche lavoretto. Qui i genitori, lo dico per esperienza personale e di amici e conoscenti, non vogliono che i figli lavorino. Vogliono che i figli studino. Vogliono che la società per il momento non abbia nulla dai loro figli, in cambio del suo sacrificio per farli studiare, vogliono che questi non si sprechino, non si sporchino, non si distraggano nella loro marcia verso un futuro di buona remunerazione.
Vi rendete conto?? I giovani, abili, pieni di energie, che potrebbero benissimo fare almeno qualche ora alla settimana un lavoro cosiddetto non qualificato per lasciare i lavori qualificati alle persone che lo sono, tra cui presto andranno tra l’altro a trovarsi, vengono invece sistematicamente incoraggiati a NON CONTRIBUIRE ALLA SOCIETÀ perché devono studiare. D’altronde, l’università stessa lascia poco tempo per altro, compreso lavorare. So che tanti universitari, poi, qualche microlavoretto lo fanno. Ma questa non è comunque la regola, e viene generalmente vista come una necessità non piacevole e una distrazione – almeno in tutti gli ambienti che conosco.
Il problema è che non tutti dovrebbero studiare, e soprattutto non tutti dovrebbero studiare lì e così. Io mi rendo conto che chi fa medicina deve posticipare di qualche anno il proprio ingresso nel mondo del lavoro, perché il mestiere richiede competenze che si devono apprendere prima sui libri, e poi mettere in pratica. Ma il discorso è già diverso per gli infermieri, e parlando con chi lavora nel settore l’opinione unanime è che questi siano peggiorati qualitativamente da quando la loro è diventata materia universitaria: la laurea dà più senso di superiorità e meno conoscenze pratiche. Senza contare il costo economico di formare delle persone più a lungo.
Idem per il giornalismo. Da quando esiste, il giornalismo si è sempre imparato facendolo: passando del tempo nelle redazioni, scrivendo piccoli pezzi, correggendo bozze, insomma con la gavetta. Adesso c’è “scienze della comunicazione” e master in giornalismo, eppure la qualità del giornalismo italiano è tragicamente bassa: superficialità, pigrizia, sgrammaticature, parzialità. Se dovessi avere un euro ogni volta che trovo un errore ortografico, sintattico o di informazione in un articolo, sarei ricca. Abbiamo i master di giornalismo, e nessun correttore di bozze. Certo non posso sostenere che questa situazione sia colpa delle università – ma di sicuro un rapporto anche solo di correlazione tra qualità del giornalismo e formazione universitaria io non lo riscontro.
Inoltre, l’esaltazione di tutto ciò che è universitario ha inevitabilmente sminuito qualsiasi altro tipo di sapere, compreso il più necessario, quello relativo al soddisfacimento dei bisogni materiali, come il cibo, il vestiario, la gestione di un’abitazione. Non solo i giovani non vogliono fare gli operai, i contadini, i camerieri, gli artigiani, ma non rispettano neanche quelli che lo fanno. Soprattutto, non li rispettano i loro genitori. È incredibile quanta gente ho visto imbarazzarsi quando raccontavo che io, che avevo studiato all’estero (brava! che coraggio! che valore!), facevo l’operaia o la commessa o la cameriera. “Tu che hai studiato, cos’hai studiato a fare, che spreco, vero che è una cosa solo temporanea”, eccetera, eccetera, eccetera. E questo è successo a tutti quelli che conosco e ai genitori di tutti quelli che conosco, questa è la retorica di cui siamo inondati ogni volta che leggiamo sui giornali o vediamo nei film: laureato con 110 e lode, lavora in un call center. Ma qualcuno dovrà pur lavorare nei call center, o no? E se vi fa schifo che i ragazzi finiscano nei call center, smettete di chiamare i call center.
No. Però ci volete e ci vogliamo tutti ingegneri, medici, banchieri, professori, architetti… e, tralasciando per un attimo i lavori che si possono relativamente improvvisare, l’esaltazione dell’università ha cancellato nella coscienza collettiva tutti i lavori che richiedono studio ed esperienza, ma non sui banchi universitari. Ormai nessuno prende sul serio un buon casaro, un bravo sarto, un calzolaio, un muratore, un idraulico, come se il loro sapere non fosse vero sapere perché è manuale e orale e non si misura da 18 a 30 e lode. Voi sapreste tirare su un muro? Confezionare un vestito? Macellare un maiale?
E intanto, per acquisire l’unico sapere che ormai valga, i giovani perdono l’opportunità di imparare altro, ma anche solo di vedere come va il mondo da dietro a un bar, pulendo una strada, raccogliendo cartacce. Tutti i lavori tra l’altro che, se li facessero i ragazzi prima di fare quello che veramente amano, non ricadrebbero sulle spalle di chi invece, magari perché povero o immigrato, ci rimane incatenato a vita.
Io sono arrabbiata con l’università perché mantiene i giovani in uno stato di improduttività fino a venticinque, trent’anni, con le famiglie costrette a mantenerli. Certo, si può cercare di eliminare i fuori corso, costringendo tutti, non so come, a laurearsi in tempo. Ma sapete che vi dico? Che questo dimostrerebbe definitivamente l’infondatezza della retorica per cui uno che ha studiato è un cittadino migliore (più informato, tollerante, attento…). Perché mai dovrebbe essere così? Non siamo già un paese di laureati, che torna indietro sulle conquiste fatte da un paese di contadini e operai? Forse, chi ha studiato scienze politiche o relazioni internazionali, o sociologia o affini, è più informato sui fatti di questo mondo. Ma chi è chino cinque anni su testi di ingegneria, matematica, in virtù di cosa dovrebbe essere un cittadino migliore?? Dove lo trova il tempo? Perché è più portato a esserlo di un non-studente, che magari tocca con mano la realtà dello sfruttamento e dell’ingiustizia? E in virtù di cosa un’istruzione ormai super-specializzata dovrebbe creare cittadini più completi? Dov’è la logica in questo?
Basandomi sulla mia esperienza, ci sono due tipi di universitari: quelli che si laureano in tempo e non hanno tempo per altro, e quelli che si laureano più tardi e possono, ma non necessariamente devono, dedicare tempo alla formazione di sé in più ambiti e alla cittadinanza attiva – ma entrano nel mercato del lavoro che hanno quasi trent’anni. Inoltre, tanti sono all’università per le prospettive d’impiego e non per l’apertura mentale: questo lo può confermare chiunque abbia esperienza di studenti al di fuori di piccoli gruppi molto attivi o particolarmente politicizzati.
Ammettiamo la verità: l’università è vista soprattutto come il requisito per un lavoro considerato migliore e per un buono stipendio. Per sacrifici fatti non solo da lui, ma anche e soprattutto dalla sua famiglia e dalla società che lo finanzia, il laureato si ritiene in diritto di godere personalmente di un salario più alto tutta la vita. Se non ce l’ha, e la mia generazione per ora non ce lo sta avendo, s’infuria. Non pensa: ogni lavoro ha pari dignità, e se io faccio questo è perché mi piace. Né pensa: non posso essere privilegiato tutta la vita per una cosa che ho fatto solo per cinque anni (non sono mica un parlamentare!).
Il fatto che la sinistra presenti l’università come via universale di riscatto sottintende intanto che si ignori la realtà che è più facile studiare per chi ha i genitori che lo mantengono, ma questo si potrebbe cambiare, ma soprattutto che ci sia qualcosa da cui e qualcosa verso cui riscattarsi, che ci sia un basso e un alto, lavori da disprezzare e altri cui ambire.
Inizio a vedere qualche segnale di cambiamento, come ad esempio un bando che abbiamo segnalato a Radio Onde Furlane la settimana scorsa per mandare i giovani a imparare un mestiere, retribuiti, in botteghe artigiane locali – e artigianale non vuol dire medioevale: puoi fare dolci con le mani, gestire un’azienda e usare il computer nello stesso posto di lavoro.
Io dico, quindi, approfittando di questo momento difficile: liberiamoci dall’obbligo dell’università. Schiariamoci le idee su cosa vogliamo che sia. Se serve per imparare a fare un lavoro specifico e basta, accettiamo che vengano regolarmente espulsi dai corsi quelli che non riescono a stare al passo e/o che sono in surplus rispetto alle necessità di determinate figure professionali da formare.
Se invece quello universitario è un sapere che si acquisisce sicuramente per cultura personale e forse per lavoro, allora io vorrei sapere queste cose:
- perché si continua a dire ai ragazzi di trovarsi un lavoro adeguato rispetto a quello che hanno studiato?
- perché, con le tecnologie a disposizione attualmente e ben tredici anni di scuola alle spalle, si ritiene che un ragazzo non possa, eventualmente, istruirsi da solo ma debba essere per forza, coattivamente e costosamente, accompagnato ancora (in particolare in materie in cui sono tantissimi i metodi e rarissimi i consensi, come quelle umanistiche)?
- perché dobbiamo accettare che le forze dei giovani non vengano impiegate a servizio della società, salvo alcuni casi, se non fino a età avanzate (anomalia italiana, tra l’altro: in Gran Bretagna conoscevo ragazzi che a ventun’anni già erano laureati e lavoravano), lasciando che facciano qualcosa per sé senza dare nulla in cambio?
Facciamocele, queste domande. La mia proposta è di mettersi in testa che si impara tutta la vita, e che l’universitario va liberato prima possibile dalla sua inattività, e il lavoratore dal monopolio che il lavoro esercita sul suo tempo, impedendogli di imparare qualcosa al di fuori di esso.