Nell’epoca della libertà, la libertà delude: non piace più. Non del tutto, almeno. Archiviati gli antichi dettami morali – fino a ieri apertamente irrisi-, si avverte la necessità di ripristinarne alcuni. E’ quanto sta accadendo in particolare per la mercificazione della donna, frontiera della decadenza che allarma la cultura laica, la stessa che ha contribuito in modo decisivo, attraverso le cosiddette conquiste civili – aborto, divorzio, fecondazione extracorporea -, allo smantellamento della cultura tradizionale. Ora basta, tuona il pensiero dominante, urge sobrietà: meno esibizione e più educazione, al bando Miss Italia e guai – recita un ddl targato Pd – a quanti «trasmettono non solo esplicitamente, ma anche in maniera allusiva, simbolica, camuffata, subdola e subliminale, messaggi che suggeriscono, incitano o non combattono il ricorso alla violenza esplicita o velata, alla discriminazione, alla sottovalutazione, alla ridicolizzazione, all’offesa delle donne».
Davanti a questa nuova sensibilità, che contiene peraltro profili interessanti, non si possono tuttavia tacere considerazioni critiche. La prima concerne la dimensione del fondamento: com’è possibile che la stessa scuola di pensiero che fino all’altro ieri propugnava il superamento della morale, ritenuta anacronistica e repressiva, oggi ne invochi un sia pure parziale ritorno? E soprattutto su quali basi etiche, in piena stagione relativista, è possibile richiamare un ideale come quello della tutela non già della dignità – che nessuno discute – bensì dell’immagine della donna? Semplificando: chi siamo noi per dire alla ragazza della porta accanto che, anziché a fare la velina, dovrebbe pensare seriamente al suo futuro? Piaccia o meno, nel momento in cui estromettiamo Dio e il diritto naturale, ogni nostra indicazione – come aveva intuito Dostoevskij (1821-1881) quando segnalava che «se Dio non c’è tutto è permesso» – si risolve in un tiepido suggerimento oppure, nella misura in cui pretendiamo ascolto, in una indebita imposizione; il che non è esattamente il massimo, in democrazia.
Ma c’è anche una seconda criticità, forse ancora maggiore, a proposito della tutela dell’immagine della donna, e riguarda quale immagine della donna si vorrebbe. Finché infatti ci si limita a stigmatizzare la mercificazione dei corpi – che comunque non è più da tempo esclusiva della donna – è facile raccogliere consenso; il problema nasce quando, andando oltre, si ragiona su quale modello sarebbe più adatto a conferire dignità alla donna. Una visione che alcuni giudicheranno superata e che in realtà è solamente rispettosa delle complementari ed arricchenti diversità fra i sessi suggerisce come più opportuno, per le donne, un orizzonte di vita che – senza escludere la dimensione lavorativa, ovviamente – considerasse il matrimonio e la maternità quali traguardi e pilastri esistenziali. Questo però, ribatteranno ora tanti e tante che condannano la mercificazione della donna, è un modo di intendere e valorizzare la donna ancestrale e soprattutto lesivo della sua libertà. D’accordo, ma così si cade in contraddizione.
Perché è impossibile da un lato criticare il modello, per così dire, della donna madre e moglie in quanto liberticida e, d’altro lato, esecrare la mercificazione femminile senza accorgersi che, in fin dei conti, altro non è che l’epilogo della cosiddetta liberazione della donna: le modelle impegnate in servizi pubblicitari al pari delle giovani desiderose di sfondare nel mondo dello spettacolo sono difatti donne che, liberamente, scelgono di sfruttare la loro bellezza. Com’è possibile condannare il loro stile di vita perché “troppo libero” e poco serio al tempo stesso ripudiare il pensiero che, per una donna, la maternità rappresenti un momento di effettiva realizzazione come “troppo chiuso” e poco spensierato? La fragilità logica di certa cultura laica rivela qui tutta la sua evidenza e suggerisce la necessità di un ripensamento più ampio. L’impressione è cioè che serva un ricupero di princìpi generale, a partire da quello della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna; che non ridia solo dignità alla donna ma che risani l’intero sistema sociale.
Siamo però certi che questo genere di ragionamento farà arricciare il naso a molti, fra coloro che oggi denunciano la mercificazione del corpo senza accorgersi che è solo una conseguenza di quella dell’anima; senza vedere che la sola via d’uscita dallo strabismo dialettico di chi da una parte vede poca morale e dall’altra ne vede troppa, è il ritorno alla moralità lato sensu, intesa non come mero insieme di regole ma come spirito condiviso, da vivere integralmente e non a rate. Non possiamo accusare la società amorale di essere immorale – sarebbero parole al vento – mentre possiamo ed anzi dobbiamo porci l’obbiettivo di ricuperare quel che di buono i nostri nonni hanno consegnato ai nostri genitori e che, a loro volta, avevano ricevuto: l’intima consapevolezza che l’alternativa all’ordine morale, in una società, non è la scomparsa dell’ordine ma della società stessa, come dimostra pure l’agghiacciante inverno demografico in corso. Un’altra realtà che, per il momento, si continua a non vedere.