L’estratto che segue è tratto da un articolo scritto da Anna Maria Ortese in un anno non meglio precisato tra il 1948 e il 1962 e se da una parte vale come un’allarmante metafora su cosa in effetti sia il depauperamento risultante da una perdita di contatto, o dalla mai acquisita capacità, di stabilire un nesso conscio con il proprio luogo, dall’altra costituisce un’insuperabile sintesi delle cause culturali e emotive che hanno condotto a una certa attualità. Ma la denuncia di Anna Maria Ortese aveva il difetto di esercitarsi su un terreno linguistico equanime in cui la visionarietà del linguaggio era uno strumento di analisi sociale quasi involontario e la sua figura, il primo attore compreso in un paradosso talmente intrinseco a quella visione da diventare l’organo più sofferente di una fisiologia orfana dell’astrazione animista del suo luogo. Mai scientemente separata dalla sua visione da rendersi un agente attendibile della denuncia, Ortese rinveniva in quasi tutti i suoi scritti giornalistici e di viaggi, ciò che restava dell’Italia nelle sue minuziose dislocazioni geografiche avvertendola negli stessi luoghi, a volte svanita, a volte mollemente vagheggiante una cultura, alleata forse, o più culture, ma altre, e mai vissute, mai veramente conosciute, i cui riflessi di pura esteriorità restavano, restano, sospesi in un limbo psichico mancante di tutto che diventa lo stesso luogo sia per chi vi perviene che chi vi stalla.
0.000000 0.000000Entrarono, a un certo punto, forse per sbaglio, cercando un altro locale, dei luoghi americani, e mi stupì da tanti anni che non ne vedevo, la differenza che passava tra questi e quelli di una volta. Indifferenti e assorti i loro visi. Sedevano lì come avrebbero potuto sedere altri clienti romani, venuti a passare due ore con la famiglia, e nessuno li guardava nessuno mostrava di distinguerli dai frequentatori abituali. Essi stessi malgrado i vestiti, il linguaggio diverso, sembravano divenuti italiani. Avevano quella stessa espressione di stanchezza senza ragione, di noia senza un motivo preciso, e in fronte quella piccola a ruga di attenzione ostinata e delusa, quello sforzo ormai vano di concentrasi, capire, afferrare al volo una verità che potrebbe essere la chiave di tutto … ma quale? (…) La notte era stellata, l’aria limpidissima, e quella canzone, quell’urlo, si mescolava a un altro, ugualmente forsennato, che usciva da una casa di fronte: il “you are my destiny”. Li sentii, li vidi, chissà perché, come i simboli giganteschi, un po’ astratti, di una sola minorazione, evidente in tutto il mondo, ma che aveva trovato il terreno più materno soprattutto in Italia. Una minorazione: come un’impossibilità di svegliarsi, guardarsi intorno, ascoltare, capire: ma capire che cosa, dopotutto? E perché?
La lente scura, Anna Maria Ortese, p. 368Su Ortese leggi anche qui