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Sulla punta di un grammofono (2000) - Fine

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Sulla punta di un grammofono (2000) - Fine
Il gesto degli sposi di comprarsi il grammofono con i soldi dell’aviere morto continuava a fare affiorare sulle labbra un sorriso. Non potevo fare a meno di notare la buffa situazione che il barone aveva involontariamente provocato. Un paradosso circondava i due eventi. Da un lato la festa per il lieto evento, e come accade in tutte le feste di matrimonio, suonare, cantare e ballare sono eventi naturali. L’allegria si ravviva e si spande come la fiamma del caminetto. Dappertutto s’accendono scintille di gioia e di divertimento. Dall’altro, l’anniversario per la morte del figlio. Lutto, tristezza, profonda mestizia. Non riusciva a capire come il nobiluomo non si fosse accorto dell’evidente paradosso, accostando così i due eventi. L’idea di associare il matrimonio con l’anniversario di un funerale strideva palesemente. Come mai un uomo come Don Carlo, persona certamente istruita, non ha colto l’evidente contrasto? Non era meglio, pensavo, dare il premio ai bambini nati in quella data? Anche la nascita di un bambino costituiva un lieto evento, ma era pur sempre un evento che non si celebrava con canti e balli, e a nessuno sarebbe venuto in mente di comprare con le cinquecento lire un grammofono. Immaginavo che a Don Carlo, quando gli si presentò l’idea di privarsi di una minuscola parte della sua ricchezza per commemorare la data di morte del suo figliolo, balenarono in testa diverse soluzioni prima di decidere di dare un premio ai novelli sposi. Forse, in un primo tempo, ebbe anche l’idea di regalare ai genitori dei neonati poveri, nati in quel giorno, il premio. Che cosa lo indusse a fargli cambiare idea? Si viveva nella seconda metà degli anni Trenta, quando il fascismo aveva lanciato la campagna demografica. Convincere i poveri “cafoni” a fare più figli da dare alla Patria non sarebbe stato considerato una nota di merito da aggiungere alla sua già provata fede fascista? Ma il solo pensiero di sapere che quei poveri straccioni gioivano per una nuova vita messa al mondo, a cui si aggiungeva anche una congrua somma di denaro, vita di cui neanche erano capaci di apprezzare il valore, quando lui era rimasto privo del figliolo prediletto, doveva rattristarlo ancora di più. E poi il gesto equivaleva a stabilire tra la morte del figlio e il nascituro una sorta di continuità: era come se egli avesse voluto dire a tutto il paese che il figlio di un uomo tanto nobile poteva rinascere anche in mezzo alle pulci e alla sporcizia.
Nel momento in cui la fiamma cominciava scoppiettare, mi accorsi ch’io ragionavo con la mente rivolta al presente. Oggi, dopo aver partecipato a tante feste di matrimonio, è evidente avere presente i balli e canti, la gioia e l’allegria che accompagnano questo lieto evento. Ma torniamo per un attimo in quell’epoca. Quando due poveri e miserabili individui si univano in matrimonio, non faceva che accrescere la loro povertà. Una volta mia madre mi disse che due tizzoni spenti non possono mai accendere un fuoco. Tutto avveniva nel modo più frugale possibile. Inchiodati alla loro miseria, gli sposi, i loro familiari non potevano permettersi né lusso di ballare né di cantare. L’evento in sé non suscitava né gioia né allegria. Sposarsi era un evento necessario, come la grandine o la pioggia di stagione. E questo Don Carlo doveva saperlo. Il ricco signore con le sue cinquecento lire cercava appunto di alleviare per un giorno la loro miseria, ma intanto stavano lì proprio a ricordarla. Se gli sposi ricevano quel regalo era perché erano poveri, perché erano tristi, miseri e afflitti dalla povertà. Egli dava quel premio alla coppia indigente affinché ricordasse che per un giorno della loro vita grama, i due avevano vissuto degnamente, avevano potuto comprare parte di ciò di cui avevano bisogno. Per un giorno e solo per un giorno, grazie a quel benedetto figliolo morto per la patria, s’era potuto far fronte alle necessità della vita. La gratitudine verso quel giovane in futuro, quando la coppia sarebbe rimpiombata nel suo stato indigente, sarebbe ancor più accresciuta, perché non c’è «nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria».
Fuori la bufera s’era del tutto calmata, mentre la fiamma della candela s’era spenta. Erano rimasti vivi soltanto pochi carboni accesi, ma in quella pallidissima penombra il gioco dei contrari m’era apparso più chiaro: vita e morte, matrimonio e funerale, allegria e tristezza, povertà e ricchezza. I poveri si sposano e danno al mondo un’altra vita, ma sono tristi. I ricchi sono allegri perché ricchi, ma quando perdono una persona cara la loro ricchezza nulla può. Mentre il mio pensiero inseguiva il suono di una tarantella, rividi la scena allegra del famoso matrimonio che mise fine al premio. Eccoli lì i due novelli sposi, allegri, dimentichi per un giorno della loro sfortunata esistenza, ballare al suono del grammofono felici e spensierati. Per un giorno non pensano al domani, e ridono, ridono di quel prodigio della tecnica che da tanto, tanto lontano fa sentire la voce e i suoni di un’orchestra. Il fruscio rende la musica ancora più bella, mentre si diffonde per le case dei vicini. Saranno stati in molti ad accorrere per ascoltare quella scatola spandere la sua magica allegria, a battere le mani e a divertirsi. Non c’era molto da mangiare e da bere in quella festa, ma c’era tanta tanta allegria. E per un giorno e solo per un giorno quelle cinquecento lire non hanno inchiodato quella povera coppia alla sua miseria, ma sono servite a scatenare una bellissima ed indimenticabile festa. La musica di quel grammofono aveva fatto emergere per la prima volta il contrasto tra il lutto del funerale e l’allegria del matrimonio, portato a chiarezza la loro incompatibilità e ricordato al nobiluomo che anche i poveri sono allegri. La simmetria dei contrasti spezzata da una punta di grammofono! I poveri per un giorno vollero non essere poveri, e dimenticare il loro stato indigente, non vollero comprare con quelle cinquecento lire pasta, pane, un po’ d’olio e qualche vestito, come fece mia madre, e riconoscere così le loro afflizioni, vollero comportarsi per una volta da ricchi, che possono essere allegri perché ricchi, permettersi per una volta la gioia di comprare un bene superfluo, voluttuario, ma che dà tanta tanta allegria. Aver avuto la presunzione di attraversare, proprio nel giorno dell’anniversario della morte del figlio, un confine, un limite, imposto da Dio e ribadito dalle leggi degli uomini, fu per il barone Mattiozzi l’affronto più grave, perciò decise che il premio non sarebbe stato mai più dato. Il ricco barone aveva scoperto di esser povero, e per una volta, solo per quella volta, invidiò quella gente senza futuro e senza passato che si accontentava di vivere nella miseria del presente.
Nella grande sala dove un tempo abitava la famiglia Mattiozzi era scesa l’oscurità. Fuori era tornato ad affacciarsi un bel cielo sereno. I raggi della luna s’infrangevano tra il diradarsi delle nuvole che leggere si scioglievano alla calma della notte. La luce elettrica in quella notte non sarebbe più tornata, ma ormai poco m’importava. Un’altra luce nella mente s’era accesa, più intensa, come quella della sera.


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