Fuori, la bufera urlava. Il vento s’abbatteva a scudisciate sulle case. Grandine e pioggia ticchettavano con violenza contro i vetri. I lampioni, spenti e oscillanti, scricchiolavano lamentosi in quella notte di pece. Mancava anche l’energia elettrica. E quando c’era maltempo, accadeva spesso. Si stava con due candele accese davanti al caminetto. Ogni tanto bisognava scansare il fumo della ciminiera che il vento riportava indietro. La fiamma del focolare era fioca, sufficiente a riscaldare soltanto le membra. Non era un’ora tarda, e mia madre amava abbandonarsi ai suoi ricordi. I fatti che mi raccontava non erano una novità. Li avevo ascoltati e riascoltati già tante volte; ora, li riascoltavo perché sapevo che a lei faceva piacere. Per lei quei fatti, raccontati per l’ennesima volta, avevano un altro significato. Lei cercava di trovarci una saggezza di vita che aveva in realtà tutto il sapore dell’ovvio.
Una volta, mi diceva, c’erano i poveri e i ricchi; oggi tutti sono a buona posizione. Quando una volta ti incontravi con un “signore” dovevi dire “buongiorno” o “buonasera”; oggi non ci sono né “signori” né “cafoni”. Nella casa, dove lei ora abita, a quei tempi ci veniva “a cercare”, cioè a chiedere un po’ d’olio, un po’ di lardo o qualche fetta di pane duro. Era la casa di una delle più notabili famiglie del paese, quella dei “baroni” Mattiozzi. A quei tempi ci abitava il padre dell’attuale proprietario, Don Carlo Mattiozzi. Fuori, il vento continuava ad infuriare. Non era difficile immaginare come si stava a quei tempi, quando la gente come mia madre non aveva neanche un pezzo di legno. Anch’io tante volte da bambino avevo sofferto il freddo di quelle case senza riscaldamento, dove il gelo penetrava da ogni angolo. Oggi, continuava a parlare mia madre, un pezzo di legno ce l’hanno tutti. Le botti sono piene di vino. Tutti hanno l’olio nella giara. Chi si lamenta oggi vuole dire proprio non riconoscere i Santi che hanno mandato sulla terra tanti beni. Eppure, aggiungeva, la gente non s’accontenta mai. Quello che la gente ha non basta mai. Vuole sempre di più. Ecco perché la gente ruba.
La sua voce aveva un tuo tono di nenia. Ascoltavo quei discorsi annoiato, per rispetto verso l’anziana madre: in sé erano tanti luoghi comuni, che non mi dicevano nulla di nuovo. Erano discorsi che aveva sentito fare centinaia di volte, dal tono sempre uguale. Cominciò a raccontarmi di quando s’era sposata. Mi domandava quanti anni erano trascorsi. Lei aveva sedici anni. Dopo un rapido calcolo, risposi che erano passati sessant’anni. S’era sposata nel 1939. Era il 18 aprile. Ricordava precisamente il giorno e il mese, ma non l’anno. E ricordava bene il giorno e il mese perché quella data era legata ad un altro fatto. Dove una volta c’era la banca, mi diceva, sopra ci stava la figura di un soldato. A quella scultura di profilo, scolpita in bassorilievo e decorata con due fronde di alloro, erano anni che non facevo più caso. Da bambino l’avevo eletta a mio eroe: aveva un profilo deciso e imperioso. Sembrava essere stato scolpito nell’atto in cui stava per compiere un’azione eroica. Il fatto che fosse stato un aviatore accresceva la sua leggenda. Anch’io da grande avrei desiderato fare l’aviatore e, chissà, morire da eroe in guerra come lui. Ma da grande scoprii che in realtà l’aviere non era morto in battaglia, non era stato un Francesco Baracca della seconda guerra mondiale. Era morto durante una banale esercitazione militare. Il padre era proprio Don Carlo Mattiozzi, uno degli uomini più influenti del paese. Non era morto combattendo da leone, ma era pur sempre morto per la Patria. Un monumento che ricordasse alle generazioni future la perdita di un caro figliolo morto per la patria serviva ad onorarne la memoria.
A Don Carlo quel semplice mausoleo non bastava. In effetti, quel profilo da sottotenente dell’aviazione, dopo qualche decennio sarebbe stato dimenticato, come appunto è accaduto nel mio caso, che non saprei dire neanche se sta ancora lì o se è stato rimosso. Il padre voleva che la data di morte del suo figliolo rimanesse scolpita nella mente dei “cafoni” più dello stesso monumento. Di generazione in generazione quella data doveva essere ricordata come si ricorda la propria data di nascita, così come ancora la ricorda mia madre e così come adesso la ricorda anch’io. Ma non è facile costringere qualcuno a imparare a memoria qualcosa che non gli interessa. Ed è proprio sull’interesse che Don Carlo solleticò la memoria dei suoi paesani. Volle istituire un premio di Cinquecento lire a tutte le coppie indigenti che avessero deciso di sposarsi il 18 aprile, giorno in cui il suo figliolo cadde precipitando con l’aereo.
A quei tempi, mi diceva mia madre, cinquecento lire erano soldi. Con il premio, mia nonna ci comprò un paio di lenzuola, fece cucire a mia madre una veste con sei metri di stoffa, e poi ci comprò altre cose da bere e da mangiare. Per la gente povera che si sposava era davvero un grande aiuto. Il fatto che a distanza di tanti anni, mia madre ancora si ricordasse la data del matrimonio era dovuto proprio a quel premio. Io tutto questo già lo sapevo, perché altre volte mi aveva raccontato la storia del premio. Quella sera però, ella vi aggiunse un particolare nuovo che fece assumere al ricordo un significato diverso. Non mi aveva mai raccontato, infatti, come mai ad un certo punto Don Carlo decise di sospendere il premio. Quando altre volte avevo ascoltato questa storia non mi ero mai domandato che fine avesse fatto il premio. Ero convinto che chiedere a mia madre qualche spiegazione, a lei che nemmeno ricordava l’anno del suo matrimonio, fosse stato del tutto inutile. O, forse, quel particolare non ha suscitato mai la mia curiosità. Ma la circostanza per cui Don Carlo decisi di non dare più le cinquecento al principio mi fece sorridere. Era accaduto che una coppia di sposi, anziché comprare con il premio beni di primaria necessità, ci volle comprare un grammofono. Ballarono per tutta la giornata. Chiaramente, diceva mia madre con grande serietà, Don Carlo non poteva certo regalare il divertimento nell’anniversario della morte del figlio. Se gli sposi ci comprarono il grammofono voleva dire che non erano poveri come volevano far credere, e Don Carlo non poteva certamente regalare soldi ai ricchi. Per non ripetere più questo errore, il nobiluomo decise di eliminare il premio. Per colpa di quei due sciagurati ci andò di mezzo tutta la povera gente del paese.
S’era fatto un po’ tardi e l’energia elettrica non si decideva a tornare. La mia anziana madre prese una candela dal caminetto e se ne andò a dormire. Il vento s’era leggermente placato. Con un pezzo asciutto di quercia cercai di ravvivare la fiamma morente. Ora che il fumo non era più risospinto indietro, stare davanti al caminetto era piacevole. Mi accesi una sigaretta. La fiamma della candela stava per prosciugarsi, ma non avevo nessuna voglia di andare a dormire. Le faville mi ricordavano una tenera poesia d’infanzia. La fiamma rianimata dalla quercia mi stimolava a riflettere. Le ombre proiettate sulle pareti bianche davano vita e calore alla stanza. In un primo tempo, la luce fioca della candela mi suggeriva di riaprire il libro di poesie di Quasimodo, che avevo cominciato a leggere prima che la luce elettrica si smorzasse, ma la storiella di mia madre aveva attirato ancor di più la mia attenzione. La fiamma della candela, scrive Bachelard, alimenta la nostra immaginazione, ci sospinge a raccogliere i nostri pensieri e a fissarli in un punto, in un punto luminoso che lentamente si consuma nel vuoto. Le ombre che la fiamma proietta sui muri silenti appaiono personaggi della nostra immaginazione, che a noi piace inseguire come si inseguono i cari ricordi della nostra vita.
continua...