In tempi di crisi economica il cinema italiano sembra aver trovato nella figura dell'imprenditore un terminale in grado di soddisfare più esigenze: anello di congiunzione tra i diversi poli del ciclo produttivo, ed ago della bilancia di un rilancio economico che deve stimolare necessariamente investimenti e spirito d'iniziativa, il detentore del capitale soddisfa non solo le esigenze di un cinema agganciato alla realtà ma anche la necessità di un carattere funzionale allo spirito del tempo. Così dopo "Il gioiellino" di Andrea Molaioli e "L'industriale" di Montaldo è la volta di Alberto, imprenditore a tempo pieno e saltuariamente corriere per un organizzazione criminale che gli consente di far fronte con sostanziose ricompense alle difficoltà di bilancio attraversate dalla sua azienda. Una routine rischiosa ma remunerativa fino a quando le conseguenze di una misteriosa irruzione, e la minaccia di uccisione dei suoi familiari da parte di una banda di malviventi lo costringono ad impegnarsi a consegnare la merce ai misteriosi assalitori. La repentina sostituzione unita alla necessità di venire in possesso dell'oggetto di scambio, lo porteranno a dare la caccia a Sergio (un redivivo Daniele Liotti), nel frattempo subentrato nello svolgimento dell'incarico. Il viaggio verso casa diventerà allora un confronto allo specchio con chi come lui è stato costretto ad oltrepassare il punto di rottura.
Sviluppato come un thriller di cui ricalca non solo la costruzione a scatole cinesi, riferite al modus operandi con cui Alberto crea le occasioni per conseguire il risultato, ma anche per il crescendo di tensione che accompagna le diverse fasi del racconto, "Sulla strada di casa" è anche la rappresentazione di una condizione esistenziale dominata dalla paura che scaturisce dall'ignoto - Alberto e Sergio sono gli esecutori di un piano destinato a rimanere sconosciuto, mentre il film enfatizza la precarietà delle cose evitando di fare luce sull'identità delle persone che in qualche modo usufruiscono dei loro servigi - oppure come conseguenza di un'incomunicabilità che non fa sconti soprattutto all'interno dell'ambiente famigliare, dominato da rapporti di incomprensione e falsità. La progressione emotiva, favorita anche dalla struttura road movie, finirà per confluire in una sorta di passaggio di consegne tra i due contendenti improntato secondo i criteri di un realismo crudo, ma proporzionato al prezzo da pagare alla necessità di redenzione.
Armonizzando le ristrettezze del budget con la presenza di un cast di primo piano, Corapi elimina qualsiasi orpello (largo uso di telecamera a mano e digitale, suono in presa diretta, fotografia documentaristica) per concentrarsi sugli attori e sulla loro recitazione. Una ricognizione ravvicinata che riesce a risparmiare, e nel contempo gioca un ruolo decisivo nel rendere l'assedio fisico e morale in cui si muove l'umanità rappresentata. In questo senso a risultare strepitosa è la performance di Vinicio Marchioni nella parte di Alberto. E' lui, nella misura del disagio e dello smarrimento che trasmette al personaggio, a rafforzare la credibilità della storia. Corapi, al suo primo lungometraggio è bravo a gestire i meccanismi del genere, a sintonizzare l'attenzione del pubblico sulle ansie del suo protagonista, a disegnare gli ambienti sullo stato d'animo dei personaggi: la solitudine della moglie di Alberto (Donatella Finocchiaro) ripresa nei fiori che fanno da ornamento ad un prato altrimenti spoglio, oppure la reclusione disadorna ma sicura nella quale il boss calabrese riesce ad organizzare i suoi traffici sono il segnale di un talento genuino. E se non fosse per un finale che tira le fila in maniera sin troppo repentina quello del regista romano sarebbe un esordio sorprendente. Le premesse restano comunque interessanti e fanno di Emiliano Corapi un regista da tenere d'occhio.
(pubblicato su ondacinema,it)