Fin qui le cose sono ancora relativamente semplici. Il problema è che ci sono dei casi nei quali gli insegnamenti si sovrappongono, determinando le cosiddette "classi di concorso atipiche". Farò riferimento alla mia esperienza, in modo da poter essere il più esatto possibile. Mentre il Greco è competenza esclusiva della A052, il Latino è già conteso tra la A052 e la A051, anche se al Liceo classico per lunghi anni lo si è affidato a docenti abilitati a insegnare nella A052. Al contrario, mentre nei licei l'Italiano è "di norma" assegnato alla A051, considerazioni di ordine curricolare e culturale, per decenni, hanno portato ad assegnarlo a docenti della A052 al biennio del liceo classico. D'altro canto, la riduzione del Latino nei licei scientifico (con i suoi diversi indirizzi) e linguistico e negli istituti psicopedagogici ha creato un'altra situazione non meno problematica: molte cattedre storicamente appannaggio della A051 sono state "dirottate" sulla A050 (Italiano e Storia negli istituti tecnici e professionali). Ma in questo caso prima o poi si dovrà compiere un'ulteriore scelta dolorosa, poiché la Storia continua a essere insegnata insieme alla Filosofia (A037) o a Psicologia e Scienze dell'educazione (A036): è inevitabile che una delle classi di concorso subirà un taglio. È tutta una catena complessa di rimbalzi (qui molto semplificata), che - in quanto coperta troppo corta, arriva a coinvolgere l'intero sistema scolastico.
Per restare all'ambito definito, si vede come l'Italiano nella scuola secondaria superiore è conteso tra A050, A051 e A052. La contrazione drammatica degli studenti di liceo classico ha fatto sì che sono diminuite in modo significativo le cattedre di quest'ultima classe di concorso, che competerà in modo più doloroso con la A051. E qui siamo alla tesi del prof. Claudio Giunta, il quale sostiene che l'insegnamento della letteratura italiana al triennio del liceo classico andrebbe attribuito di preferenza alla A051, perché - a prescindere dai meriti personali - la formazione del classicista è diversa da quella del modernista e non compatibile (o, almeno, non compatibile se si vuole garantire la qualità della propria azione didattica e culturale). Il fatto è che l'unica classe di concorso a richiedere obbligatoriamente la laurea in Lettere classiche è la A052, a tutte le altre si accede sia da Lettere classiche che da Lettere moderne. Né si può fare un discrimine tra titoli di accesso diverso nella medesima classe di concorso, perché chi arriva ad abilitarsi nella A051 viene identificato solo da quel codice alfanumerico, non dagli studi compiuti, che rimangono invece impliciti. E io mi domando per quale ragione, nella prospettiva del prof. Giunta, uno studente di liceo classico debba studiare Letteratura italiana (che rappresenta qui una materia di indirizzo) con docenti che siano laureati in Lettere moderne - e che magari a loro volta possono avere frequentato il liceo scientifico da alunni.
Sarà forse l'indole mia da modernista e degli eccellenti colleghi che ho conosciuto, ma ho sempre ragionato in termini di "alterità", facendone il fulcro delle mie programmazioni. Ho sottolineato e sottolineo senza posa le ragioni di distanza e, dietro le quinte, gli imprevisti riallacciamenti, tanto nella letteratura antica quanto in quella moderna (e addirittura nella lingua madre). Comprendo molto bene il solco che il prof. Claudio Giunta traccia tra antico e moderno, ma il problema mi sembra che stia nella cultura e nell'elasticità del docente: io sono forse un frutto mal riuscito di un curriculum classicistico, ma posso garantire che omeristi e ovidianisti di primo livello sono altrettanto - o più - capaci di dare un taglio superbo alla Letteratura italiana al liceo classico e non solo (anche tenendo conto che la didattica in aula si basa sulla compresenza degli alunni adolescenti e che deve essere profonda senza puntare mai al taglio specialistico). E anche nella A050, su cui ormai lavoro, credo che un classicista possa dare un contributo specifico non di secondo piano rispetto ai miei colleghi "modernisti".
Tuttavia, poiché non attribuisco grande importanza alla condivisibilità della tesi (comunque molto meno di quanto invece ne abbiano chiarezza e onestà), voglio approfittare del bel post di Claudio Giunta per tentare un altro tipo di ragionamento. In un mondo utopistico, sarebbe ideale che il Dirigente Scolastico (con accanto uno staff di tutti i capidipartimento) potesse scegliere, da un corpo docente stabile e titolato, la persona più adatta a insegnare una determinata materia in una data classe, ma, per meccanismi estremamente complessi (che non è possibile sintetizzare qui), questo quasi mai è possibile (o addirittura in molti casi non è legittimo). Andiamo dunque alla dura realtà. L'appiattimento delle differenze tra i diversi indirizzi delle scuole secondarie di secondo grado rende, in effetti, più drammatica la contiguità tra le classi di concorso e, se non ci chiariamo gli obiettivi di ogni ciclo scolastico e di ogni tipologia di studi, in funzione delle competenze in uscita dei ragazzi, tutta questa situazione esploderà, come sta già accadendo. I contenuti e le metodologie per trasmetterli hanno ancora un senso? Le competenze specifiche in uscita (specifiche, sottolineo, non specialistiche) vanno difese e distinte?
È un fatto, cioè, che la tante volte annunciata unificazione delle classi di concorso (che avrebbe ripercussioni speciali su quelle atipiche) non decolla tra le mille riforme promesse e smentite. Ed è un fatto non meno vero che un insegnante, per quanto sia stato titolare delle stesse discipline per trent'anni, deve continuare a studiare sempre, a meno che non ci si aspetti da noi che si ripropongano senza posa pacchetti di lezioni standard con un occhio più a una fantomatica didattica che all'esattezza e all'innovazione dei contenuti. Cosa cambia, dunque, una volta che l'abilitazione certifica il possesso delle metodologie e degli strumenti intellettuali, se il docente si mette alla prova su un territorio che, a prima vista, mostra qualche superficiale discrepanza con il curriculum? C'è una specie di schizofrenia nel ragionare sulla classe insegnante: si pretende che siamo intellettuali a tutto tondo e ci si rimprovera di non esserlo abbastanza, ma ci si immagina formati da un percorso preconfezionato. Ribadisco, allora: sarebbe proprio bello che - stabiliti gli assi fondamentali della didattica, anche sul piano organizzativo - il Collegio dei Docenti di volta in volta assegnasse le materie e i professori alle singole classi sulla base delle persone e della realtà.
Non entro qui nel merito della formazione dei professori: non faccio un torto alla categoria se dico che molti colleghi andrebbero estirpati dal loro ruolo, così come non generalizzo affatto quando dico che i debiti culturali li abbiamo anche a causa delle università, che da una quindicina d'anni detengono il monopolio quasi esclusivo dei percorsi abilitanti. Ma tutto questo viene dopo e ci porta inutilmente lontano: quel che conta è che ognuno di noi fa il suo lavoro al meglio portando in classe la sua identità culturale (antropologica e accademica). Ciò che mi preme è che si faccia scuola e che ci si lavori su. Senza più interrogativi astratti, pregiudiziali o metafisici. Dobbiamo proprio metterci al lavoro e vedere cosa ciascuno di noi può dare ai suoi alunni - e come. Se la scuola è fatta di persone mediamente intelligenti che lavorano non sorgono problemi, anche se i codici delle classi di concorso presentano qualche anomalia. È la scuola fatta di "profili" funzionali, la scuola spersonalizzata e paralitica, a soffrire di più delle inadempienze della burocrazia e ad affondare.
Riferimenti:
Il post di Claudio Giunta