Quando qualcosa di positivo e che ti piace entra nella tua vita, più il tuo interesse è palese e più le persone che ti vogliono bene ti aiuteranno a saperne di più e ad indicarti libri, film, risorse che lo riguardano.
“Sulle mie labbra”: breve recensione del film
E’ così che, qualche tempo fa, ho visto il film “Sulle mie labbra”, che parla di una donna sorda alle prese con un rientro complicato nella normalità: riesce ora a sentire piuttosto bene grazie a due apparecchi acustici, tanto da poter rispondere al telefono, e se ti ha di fronte integra l’udito (comunque non ottimale) con la lettura delle labbra.
Carla , questo il suo nome, ha un lavoro, dove la gente non sa con precisione che è sorda dalla nascita, ma non perde occasione per trattarla male e dire su di lei cose volgari e cattive… Quando credono che lei non li sente, non sapendo che lei è in grado di leggere estremamente bene il labbiale anche se sono troppo distanti perché li possa sentire.
Il film è un film francese. E con questo non sto descrivendo solo la provenienza geografica, ma anche tutti i pregi e i difetti di un film francese: è lungo, con molte scene lente e ripetitive e può stancare se non ci si è abituati. Un altra cosa che può essere vista come un difetto è il fatto che vuole raccontare diverse storie contemporaneamente, di cui molte rimangono senza una vera conclusione e alcune rimangono solo accennate e mai approfondite.
Detto questo, se vi piacciono i film francesi, dovete assolutamente vederlo. La storia principale è interessante, la figura della protagonista riesce a racchiudere in maniera perfetta sia un’enorme forza e quantità di risorse, sia una fragilità altrettanto grande.
La ricerca della normalità
Il vero tema del film è però un tema controverso, che viene presentato in maniera piuttosto neutra, senza che il regista dia veramente risposte: la ricerca della normalità.
Cos’è la ricerca della normalità?
La ricerca della normalità non è un problema solo dei sordi, ma di tutte le minoranze. E’ una ricerca che può venire affrontata in molte maniere, ma spesso comprende uno stacco netto dalla propria cultura di origine, una negazione della propria diversità. La mia domanda è: è davvero necessario abbandonare le cose che ci rendono ciò che siamo per avere una vita normale?
Il film non si pone questa domanda, la protagonista ha già scelto: lei ora è dura d’orecchi, non sorda. Il tutto per rincorrere una vita lavorativa in cui lavora come una schiava e altri si prendono tutto il merito. Dovrà combattere duramente per riuscire a farsi rispettare… E per ottenere tutto questo, ha passato anni di incredibile solitudine, frequentando poche amiche che sembrano essere tali solo in virtù del fatto che lei fa gratis da baby-sitter ad una di loro, e le presta anche l’appartamento per portarci gli uomini, anche senza preavviso.
E’ veramente necessario, fuori dall’orario lavorativo, evitare gli altri sordi per vedersi invece con persone del genere? Se le sue amiche le fossero veramente amiche potrei anche capirlo, ma è giusto soffrire una solitudine come quella che trasmette il film solo per paura di essere vista segnare?
Ovviamente no, e non è un problema solo dei sordi. Quanti ragazzi di origini ebraiche in questo momento staranno evitando di farsi vedere con gli amici di infanzia, che essendo praticanti sono magari più riconoscibili di loro? Quante persone, al mondo, cercano di nascondere le proprie radici per paura di essere giudicati?
Vi lascio con quella che per me è stata la scena più toccante e triste del film, l’unica in cui si vede usare la LSF (langue des signes française, lingua dei segni francese)… All’inizio, pensavo non avesse bisogno di essere commentata. E’ difficile aggiungere qualcosa a quello che ho detto fino ad ora.
Ma poi, leggendo “Il grido del gabbiano”, dell’attrice sorda Emmanuelle Laborit, ho pensato che fosse importante anche mostrare un esempio positivo di come può essere vissuta la sordità, confrontando proprio la situazione francese di trent’anni fa con quella americana.
Da “Il grido del gabbiano”:
Prima visita all’università. Alfredo Corrado mi spiega che non tutti sono sordi. Se ho questa impressione, è perché ci sono molti insegnanti udenti che parlano il linguaggio dei segni. Come riconoscerli, se nessuno porta un’etichetta in fronte? La cosa non mi sembra necessaria, hanno un’aria così felice, sono talmente a loro agio. Non regna quella reticenza che ho avvertito persino alla scuola di Vincennes. Inconsciamente, la gente si sente a disagio, in Francia, a usare il linguaggio dei segni. Lo avvertivo, quel disagio. Preferiscono nascondersi, come se la cosa fosse un tantino vergognosa. Ho conosciuto sordi che hanno sofferto per tutta l’infanzia di tale umiliazione, e che non si sono impadroniti completamente, neppure ora, della loro lingua. Si intuisce il passato difficile. Forse perché in Francia la lingua dei segni era vietata fino al 1976. Era considerata una sorta di gestualità indecente, provocante, sensuale, che fa ricorso al corpo.
A Washington, invece, nulla di tutto questo. Nessun problema, una favolosa spigliatezza, da parte di tutti. Il linguaggio è praticato normalmente, senza complessi. Nessuno si nasconde o ha vergogna. Anzi, i sordi mostrano una certa fierezza, hanno una loro cultura e una loro lingua, come chiunque altro.