Innanzitutto, se a qualcuno interessa, adesso il mio libro è in vendita anche al Kobo Shop, quel negozio-galleria bellissimo in Via Palladio vicino all’università (e poi alla Libreria Moderna in Via Cavour e alla CLUF in Via Gemona, come prima).
Detto ciò, ammetto di non aver aggiornato molto il blog ultimamente. Questo non è un problema per nessuno, se non per me che mi chiedo: dovrei scrivere di più? La risposta è no, e nelle successive pedanti considerazioni spiegherò perché.
Il fatto è che al momento non ho niente da dire, o meglio, ho tantissime cose da dire, ma nessuna in forma così completa e originale da scriverla qui. Più in generale, io voglio scrivere, ma avere un altro lavoro mi libera dall’obbligo di scrivere per forza, e mi dà il tempo di leggere -e penso che in generale, se tutti leggessimo di più (e scrivessimo di meno) parecchi problemi del nostro paese e del nostro tempo sarebbero risolti quasi all’istante.
E quindi mi chiedo, senza naturalmente avere la risposta: quante cose sono scritte per dovere, o denaro, o routine, e non per necessità di comunicare qualcosa di nuovo? Quanti giornalisti (tanti, si vede benissimo) scoprono e coprono velocemente cose già scoperte e ricoperte dagli altri, quando basterebbe leggersi di più a vicenda per andare in profondità a turno invece di descrivere tutti insieme la stessa superfice? Perché queste cose vengano fatte naturalmente servirebbero dei lettori più attenti e paganti, o dei professionisti più umili e pazienti, che fanno le cose con calma.
E la ricerca? Quanta ricerca universitaria deriva dall’obbligo di giustificare la propria posizione e il proprio stipendio, piuttosto che dall’aver effettivamente scoperto qualcosa? Quando sento dire che in Italia ci sono pochi ricercatori, mi chiedo: in base a cosa? a quanti vorrebbero fare ricerca? alla media degli altri paesi? o a quanto dovremmo effettivamente sapere e ma nessuno è pagato per scoprire? e come si calcola questo?
Lo stesso vale per gli scrittori “in crisi di ispirazione” -non sarebbe meglio andassero a raccogliere patate? Addirittura: scrivere può essere un mestiere? E se uno in quel momento o per il resto della vita non ha più niente da dire? Per quanto sia stata in fondo una delle colonne portanti della mia vita, ho sempre visto la scrittura come un mezzo, non un fine. Ma se uno è giornalista o scrittore di mestiere, e deve andare a caccia di storie per riempire delle pagine se no non mangia o la gente si dimentica di lui, non sarebbe meglio facesse altro intanto, e tornasse a scrivere quando vede qualcosa che vuole raccontare o denunciare? Non sto dicendo, attenzione, che non debba essere pagato per quello che scrive, semplicemente che non dò più per scontato che sia un’attività unica e permanente. Questo perché considero il mio scopo nella vita “fare qualcosa che considero buono e utile”, e non “scrivere” di per sè.
Forse in altre forme espressive è diverso -uno può suonare tutta la vita la stessa canzone.
Comunque, sono assolutamente convita che nel nostro paese ci sia una sovraproduzione culturale, una combinazione di quantità ingestibile e bassa qualità, figlia di tanti mali diversi, tra cui anche il desiderio/bisogno di far soldi o farsi notare più che di comunicare.
Io non ho nessun potere in merito, posso solo dire la mia, e astenermi dallo scrivere quando non ho niente da dire, appunto. Anche il mio rapporto con il mensile con cui collaboro, il Nuovo, è basato su questo, cioè faccio articoli quando ci sono argomenti che io e loro pensiamo vadano trattati -ma non sento nessuna pressione.
So che quando la gente mi vede a lavorare in un bar, anche se è un bar di prestigio, spesso pensa ma non dice: ancora non ha trovato niente che sia nel suo campo? Ma qual è il mio campo, se non cercare di osservare e capire le cose? Così io voglio vivere perché così sono completamente libera, libera di parlare e libera di tacere, e non si può dimenticare che la libertà di fare una cosa necessariamente implica la libertà di non farla.
Ah: una volta ho letto questo. Magari un giorno lo rileggo e lo riassumo.