Anna Maria Cantarella 11 marzo 2013
Confesso che un po’ mi tremano le dita mentre mi accingo a scrivere queste righe. Non è l’emozione e nemmeno l’ansia da prestazione, si tratta piuttosto della strana sensazione che provo sempre quando – costretta ad esprimere un’opinione su un argomento spinoso – sono consapevole che qualunque cosa dirò il risultato saranno inevitabilmente fiumi di discussioni. Nel caso specifico so che sto per cacciarmi in un ginepraio: il soggetto è Giovanni Allevi, ipertricotico pianista (e non me ne vogliate se lo chiamo così, in fondo suona pur sempre il pianoforte) che martedì 5 marzo ha riempito il Teatro Metropolitan di Catania facendo registrare un’altro sold out del Sunrise Tour, nel quale ha presentato le sue ultime fatiche da compositore. Lui è sempre uguale a se stesso e tale si presenta al pubblico del Metropolitan: maglietta e pantaloni neri, aria smagrita da nerd corredata di occhialoni e sneakers, capelli al vento e vocina flautata con la quale introduce i suoi brani utilizzando metafore tanto poetiche quanto scontate. Qualcosa di nuovo c’è: Sunrise è un concerto diviso in due parti. La prima è tutta dedicata a La danza della strega – Concerto per violino ed orchestra in Fa minore, composizione in cui Allevi si improvvisa direttore, accompagnato dalla validissima Natalia Lomeiko, virtuosa del violino e vincitrice della 47esima edizione del Premio Paganini. La seconda è la Fantasia concertante per pianoforte e orchestra, in cui ritroviamo tutto l’estro musicale di Allevi che, sostenuto dai musicisti dell’Orchestra Sinfonica Italiana, dirige e suona le altre cinque tracce del nuovo album: Sunrise, Mandela, Symphony of Life, Elevazione e Heart of Snow.
L’intero album – che non a caso si chiama Sunrise, letteralmente “alba” – è il simbolo della rinascita dopo una crisi profonda, avvenuta in seguito alle aspre critiche che Uto Ughi indirizzò ad Allevi definendolo “modestissimo musicista”, dopo aver appreso della sua esibizione al Senato nel 2008. Da quel momento sembrava essere calato il buio sull’estro creativo del compositore fino a quando, durante un volo per il Giappone, Allevi non supera i blocchi emotivi derivati da quella critica feroce e ritrova l’inventiva perduta. Insomma, è l’alba di un nuovo Allevi. Nel tentativo di fare un’analisi quanto più oggettiva possibile, ammetto che nel complesso Sunrise è un miscuglio azzardato tra gli stilemi della musica classica di repertorio e strutture melodiche moderne, che però ammiccano spesso al pop più elementare e che non richiedono una grande perizia da esecutore, almeno per quanto riguarda i brani del pianoforte. Il risultato finale tuttavia è, almeno per le mie orecchie, un mélange forse improvvido ma comunque molto gradevole. Il mondo della musica classica si sconvolge al solo sentirlo nominare, si critica il suo modo di fare, la sua presunzione nel definirsi un musicista classico, gli addetti ai lavori non riescono a spiegarsi come sia possibile che tutti i suoi dischi siano in vetta alle classifiche, eppure Giovanni Allevi è apprezzato e, sia come sia, riesce a vendere una quantità di dischi spropositata per quel genere. Forse è il prodotto di una sapiente operazione di marketing, forse è solo un presuntuoso che riesce a vendersi come compositore mentre in realtà è solo uno strumentista neanche troppo talentuoso, fatto sta che durante il concerto il teatro era pieno, gli applausi scrosciavano entusiasti e il pubblico di Allevi non ha accennato ad alzarsi dalla poltroncina fino a quando non sono stati eseguiti Back to Life e Come sei veramente, divenuti ormai brani simbolo del marchigiano.
Direi che su tutto questo è necessario riflettere, e non solo per demolire il lavoro di un artista che si può più o meno stimare ma soprattutto per cercare di capire le motivazioni dell’apprezzamento che Allevi riceve da molto pubblico e, per contro, le feroci critiche degli addetti ai lavori. La sua musica è orecchiabile, tecnicamente semplice, ed è per questo che piace tanto anche a chi di musica classica non ha mai sentito nemmeno parlare. Non è Mozart, non è Maurizio Pollini e non è nemmeno Keith Jarrett, sia chiaro. Ridurlo però a uno squallido fenomeno di marketing orchestrato furbescamente dalle case discografiche sarebbe come negare il suo successo, e invece onestamente non si può negare che la sua musica – che non è classica ma è piuttosto musica leggera strumentale – ha una presa su chi ascolta, attira i giovani al pianoforte e piace molto. Non va bene neanche dire che il problema è il pubblico, il cui gusto estetico è mediocre e scadente, che non sa distinguere tra un capolavoro e quattro note messe insieme in una banale melodia, perché la musica, come del resto ogni altra forma d’arte, è comunicazione. E se Allevi ha successo vorrà dire che qualcosa comunica, foss’anche un messaggio banale e mediocre che però è evidentemente quello che il pubblico si aspetta, tant’è che avvicina la gente a un genere che spesso è avulso alle grandi platee.
Una volta chiarito che non siamo davanti a un compositore che farà la storia, compreso che non è in nessun modo un continuatore del grande repertorio classico, si potrebbe forse trovare un accordo. Io, che sono una semplice fruitrice della musica con qualche conoscenza in materia, ammetto senza remore che a me piace Allevi, piace alle mie “orecchie” e alla mia “pancia”; riesco a percepirvi dentro qualche “già sentito” ma la cosa non mi infastidisce, anzi solletica la mia curiosità; sento che quelle note agiscono nell’animo e se qualcosa riesce a farmi questo effetto non sto più di tanto a studiarmi gli ingredienti, divoro e basta. I “duri e puri” della musica classica non apprezzeranno, ma poco importa; “gli acculturati” penseranno di essere davanti a un’ignorante musicale, rappresentante di un pubblico il cui canone estetico è profondamente degradato. Neanche questo è importante. In fondo, ognuno ascolta quello che vuole e quando una cosa non vogliamo sentirla, possiamo sempre tapparci le orecchie.
Fotografie di Massimo Volta