Per guardarsi un film insieme al resto del mondo bisogna espatriare, non c’è stagione che tenga. C’è solo un’isola, quella di Lost, dove il tempo ha fatto un salto, portandosi dietro una differenza, un ritardo di tre mesi rispetto al suo normale corso. Quell’isola è l’Italia, dove Super 8 arriverà a settembre, vedere per credere.
E noi siamo tutti isolani. Ma, per fortuna, ci sono i traghetti. E sono molti.
Ora, questo film è di J.J. Abrams. Lo conoscete, ha concepito le prime stagioni, le più belle stagioni che si siano mai viste, di un noto telefilm, ha riportato al cinema Star Trek, in un ottimo film, a mio parere, quando nessuno ci avrebbe scommesso un euro, sul fatto che la gente si recasse in massa a guardarsi le orecchie a punta di Spock che, tra l’altro, Kirk a parte, è uno dei personaggi più riusciti. E… in generale ha quella ventata di novità, Abrams, quel gusto di voler stupire, che fa sempre bene agli spettatori.
Ma c’è un ma… e, credetemi, dopo tanti film di successo, quel ma arriva sempre: Steven Spielberg alla produzione.
E, ok, che sarà mai?
Niente, infatti. Ho amato Spielberg e i suoi primi lavori. Li amo tuttora. Solo che lui, ecco, in questi ultimi anni è diventato il Regista Puccioso per eccellenza. Quello dello Zuccherificio, del volemose bene intergalattico, delle famigliole sull’orlo della crisi di nervi che però si amano alla follia. Insomma, quello dei drammi in confezione dispenser, paghi uno prendi due, che si risolvono con gli abbracci.
Abrams+Spielberg. Miscuglio che come minimo dà vita a una minestra riscaldata.
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I protagonisti sono un gruppo di ragazzini impegnati a girare un film di zombie, per un concorso inter-scolastico. Tra di loro, Elle Fanning, sorella di Dakota, già arruolata da Spielberg da quando era piccolissima.
E già qui, nella persistente scelta degli attori in ambito familiare, secondo l’albero genealogico, si possono vedere tracce del sentire certo cinema oggi: contratti di servitù obbligata. Tipo la gleba medievale. Se vuoi girare di alieni con Spielberg devi essere una bambina bionda, che di cognome fa Fanning, e, possibilmente, evitare di crescere. Che poi siano anche brave tutt’e due, le sorelle, diciamo che è un valore aggiunto.
Comunque, i ragazzini sono simpatici, soprattutto il ciccione che fa il regista (Riley Griffiths), prepotente, deciso e organizzato come un professionista.
Il marchio di fabbrica puccioso spielberghiano, però, è dietro l’angolo. E infatti il protagonista, Joel Courtney, è un ragazzino con un dramma familiare: ha appena perso la mamma e suo padre, questo sconosciuto, non sa fare il padre.
Ora, svolta narrativa legittima, per carità. Anche se, dopo aver visto il film, viene da chiedersi perché optare per questo dramma al dolcificante, visto che è assolutamente inutile rispetto al resto della trama. Il dramma psicologico è lì, appiccicato sopra, senza alcuna giustificazione.
Non crea contrasti, se non una piccola discussione tra papà e figlio. Quest’ultimo, ragazzino d’oggi, maleducato, alza pure la voce.
Tutto qua. Nessuno se ne frega nulla del lutto. Ma esiste, perché dietro c’è il marchio di fabbrica puccioso.
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Il film dura cento minuti. E devo ammettere, al di là di tutte le leggende metropolitane lette e diffuse in rete, che è divertente, almeno nella prima metà. Ma non è quello che ci si aspetta.
Il gruppo di ragazzetti riesce a evocare atmosfere nostalgiche dei loro antenati degli anni Ottanta, i Goonies, anche nella mantella impermeabile gialla di uno di loro, il regista, pur restando lontani anni luce, e per carisma e per divertimento suscitato. Però funzionano, riescono simpatici. E, quando si trovano lì, a guardare l’incidente ferroviaro, una catastrofe, si viene coinvolti.
Nella migliore tradizione Abrams, stavolta, l’incidente inizia in sordina, mentre tutti sono occupati a fare altro. Nella notte, quando si riesce a intuire che qualcosa non va da scintille improvvise sui binari. E poi di seguito esplosioni, vagoni che saltano in aria, e un’apocalisse che all’inizio la subisci quasi divertito, e poi ti fa paura perché insiste, cresce e diventa difficile, quasi impossibile uscirne.
Quando tutto è finito, dalle macerie, spuntano dei cubi di uno strano metallo.
E qui i cubi sanno di botola in mezzo alla giungla, giungono inattesi, enigmatici, incongrui.
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Il mistero, a mano a mano, viene rivelato. E Super 8 evoca spettri di altri film del passato, tutti a matrice spielberghiana, rivelandosi piuttosto noioso, sia nello score, rumoroso e roboante, per dare un tono epico a scene che di epico hanno ben poco, sia nella presunta drammaticita che, però, risulta piatta e poco coinvolgente, perché, come detto prima, trattasi di suggestioni emotive messe lì per caso, per fare scena, anzi per contratto, senza che alla base sussista un sentire particolare, l’esigenza di comunicare qualcosa. Sono emozioni vendute in scatola, all’ingrosso, come da Zuccherificio.
Altra cosa che si è persa per strada è il Sense of Wonder. E.T. telefono-casa, sotto la coperta da cui spunta il dito luminoso, e le note di Incontri Ravvicinati, quella musica linguaggio universale, ce la sognamo la notte, ormai.
La visione è piatta anche se tecnicamente ineccepibile. E non è manco questione d’attori, sapete, o di registi, a questo punto. Dal momento che, una volta create certe cose, credo sia impossibile dimenticare come le si sia fatte.
Ma, come per Falling Skies, credo che l’ostacolo sia la Premiata Ditta, divenuta macchina da soldi, che pretende di muoversi nel terreno asettico per continuare a dare agli spettatori esattamente ciò che vogliono. E non parliamo di gente che va al cinema conoscendo i personaggi e mestieranti coi quali ha a che fare, pronti al disastro ma confidando nella rinascita. Parliamo di quelli che Spielberg, e chi è?
Ecco che allora per questi spettatori tutto è nuovo e sbrilluccicoso. Peccato che sia soprattutto vuoto.
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