L’atletica italiana non è morta. È capace di battere ancora un colpo. Di farsi sentire. Di mostrarsi al mondo. Sul podio c’è finalmente un po’ di azzurro. Dopo le scelte sciagurate di alcuni… Nel salto triplo. Nell’unica gara che ci poteva vedere concretamente protagonisti (incrociando le dita per la marcia di Elisa Rigaudo) non manchiamo all’appello. Ad alzare il braccio, a salvare la baracca, a mettersi al collo uno stupendo bronzo ci pensa Fabrizio Donato con un ottimo 17.48. Con la gioia di vivere davvero questo sport a pieno. Con felicità. Con semplicità. Ci riesce in una delle discipline più usuranti e traumatiche (dal punto di vista fisico) di tutto il programma. Incerottato. Mezzo rotto. Con il tendine d’Achille sinistro mezzo disfato. Con le scarpe chiodate rimesse solo settimana scorsa. Con qualche inizio di sciatalgia. Non lo rompe nessuno. Non lo ferma niente.
Alla quarta Olimpiade. All’ultima vera occasione della carriera. Dopo le eliminazioni di Sidney, Atene e Pechino, a trentacinque anni per la prima volta partecipava a una finale (tra l’altro saltando solo una prova in qualifica, uno dei pochi a riuscirci in tutta la storia a cinque cerchi). Non poteva farsi sfuggire il sogno di una vita. Da Frosinone il finanziare si presentava a Londra col fresco titolo europeo ottenuto a Helsinki e con la terza misura mondiale del 2012: 17.53. Non delude. L’amato coach Roberto Pericoli (a cui poi verrà dedicata parte della medaglia) diceva che avrebbe avuto solo due salti a disposizione prima di rompersi. Macché. L’autonomia c’è. Eccome. Le pile sembrano non finire mai. Il suo top lo tira fuori al quarto tentativo. Non taglia sullo stacco come temeva. L’asse di battuta è buono, lo step è ottimo, cadenzato durante i balzelli. Non si siede sul jump come aveva paura di fare alla vigilia. Perfetto, col solito vizietto di torcersi per guardare l’indicatore di misura. Se avesse slanciato di più le gambe e si fosse aiutato con la spinta delle braccia lasciate dietro chissà cosa avrebbe combinato. Il suo record italiano a 17.60? Chi lo sa. Superare quella magica serata d’inizio estate del 2000 a Milano sembra così lontano. Ma perchè si evolve, perchè non si è più puliti tecnicamente, perchè si sporcano alcune cose. La mente è libera, però. Come invece non lo era dodici anni fa. È passata una generazione sportiva e un mai domo Fabbry è ancora lì. Perché non è mai troppo tardi se ci si crede. Perché non bisogna farsi fermare dagli infortuni. Perché anche se ti hanno rovinato una carriera che sarebbe stata ancora più magica, hai ancora una possibilità. E la si può cogliere appena ti passa davanti. Donato risponde presente, sale sul trenino che passa accanto a quella pedana magica. Per volare in paradiso e farsi il regalino. E per portare a casa un giocattolino alla sua Greta che gli aveva regalato una maglia con dedica e un braccialetto con la bandiera italiana. Per donare un successo alla moglie Patria Spuri, che ricordiamo con affetto nei 400m e negli 800m. Non è mai troppo tardi.
Queste le sue dichiarazioni nel dopo gara: “Ancora non ci credo. Sono emozionato. Tanti anni di sacrifici. Mi ero messo dei paletti, degli obiettivi. Ero riuscito ad avvicinarli tutti in questa stagione. Poi nell’avvicinamento ai Giochi il mio fisico mi ha mandato dei segnali. Prima la schiena, poi il tendine mi bloccava. Ho speso a livello nervoso l’inverosimile. Il mio allenatore mi ha tenuto tranquillo anche se era difficile. Sembrava che le cose non andassero come avrei voluto. Mi sono preso l’antidolorifico prima della gara. Facevo più fatica, non sentivo lo stacco. Sì ho saltato tanto, ma non ho mai fatto una cosa pulita. Ma se questi sono i risultati…”. E poi una lezione di vita, in risposta alla conferenza di Schwazer di ieri: “Io a quasi trentasei anni mi diverto ancora. Mi alleno con i più giovani. Bisogna prenderla così, senza un dovere…”.
(foto FIDAL)
OA | Stefano Villa