Comunque allora a Valle San Bartolomeo, per noi bimbetti c'era, insostituibile, il rito della merenda. La mamma mi dotava di 20 lire con le quali, mi lasciavo andare senza pedalare, nella corta discesa che da casa mia portava fin sulla piazza del paese. Qui, sull'angolo, un vecchio negozio tuttofare con prevalenza alimentare, ma credo avesse anche quello che il marketing oggi definisce "non food", esibiva sulla parete scrostata della vecchia casa dalle pareti giallastre, una scritta sbiadita e poco leggibile: Cooperativa. Non era ben chiaro in cosa cooperasse, ma alla fine era, come supermercatino di prossimità ante litteram, uno dei punti cardine del paese dove al mattino le donne si accalcavano litigando per la precedenza ad essere servite. Era ancora tempo di "surrogati", dalla miscela Frank al posto del caffè a tanti altri succedanei, tardi epigoni del periodo di guerra, quando erano anch'essi rarità ricercate; un tempo in cui Ferrero non era ancora nessuno. Quello che interessava la nostra merenda era una specie di grande mattone parallelepipedo avvolto in carta dorata, per simularne la ghiotta qualità, che veniva affettato come un salame rivelando una partitura in quattro riquadri, due bianchi e due marroni disposti diagonalmente (non ho trovato su internet una foto, qualcuno mi aiuta?), che veniva pomposamente chiamata "cioccolata".
La signora, una tombolotta grassoccia, avvolta da un grembialone tendente al bianco, ma alquanto vissuto, quando ci vedeva arrivare, tirava fuori il blocco da uno stipo e con un coltellaccio che mi pareva enorme, affondava nella morbida materia, ricavandone una spessa fetta quadrata, poi prendeva una vianeisa, la tagliava longitudinalmente e ci ficcava il bianco e nero, schiacciando bene le due valve, la cui crosta faceva un tipico crock, in modo che non ne scappasse neppure una briciola. Si usciva dal negozio brandendo tra le due mani la squisitezza che veniva sbocconcellata sulle panchine della piazza, parlando forse di figurine di calciatori. Quel giorno, arrivai da solo, forse in anticipo rispetto agli amici e il negozio era deserto come sempre alla prima apertura pomeridiana. Chiesi il solito e non badai all'occhiata che la madama si scambiò con la commessa, una ragazzotta dei bricchi che aiutava dietro il bancone dei salumi, non avendo voluto forse proseguire il percorso scolastico. Mi chiese se lo avrei mangiato subito e alla mia risposta positiva, estrasse il materiale e tagliatolo, mi confezionò il panino velocemente, incitandomi a mangiarlo senza perdere i pezzi per la strada.
Non c'era ancora nessuno in giro della mia banda, per cui tornai a casa tenendo il manubrio con una mano sola e stando bene attento a non cadere, arrivai in cortile col panino praticamente intatto, anche perché dai primi morsi, il gusto bambino, anche se poco attento, non mi stava dando la solita soddisfazione. La mia mamma stava attorno ad un mastellone pieno di lenzuola da lavare e quando mi vide di ritorno prima del tempo diede un'occhiata attenta al nutrimento del suo pupillo. Spalancò subito tanto d'occhi constatando che il companatico ben nascosto all'interno del panino era cosparso di marezzature verdi di una muffa pervicace e per nulla invitante che il mio occhio di bimbo ancora non avvezzo a considerare la qualità del prodotto non aveva neppure notato. Asciugatasi le mani nel grembiule le vidi stringersi gli occhi come le poche volte in cui era davvero arrabbiata, lupa a cui avevano toccato il lupacchiotto. Il panino in una mano e me dall'altra, mi trascinò di volata alla Cooperativa, dove fece una scenata epocale alla madama, che accampò scuse di vario genere, incurante della mia testimonianza che, spietatamente riportavo i suoi incitamenti a mangiare subito il materiale sotto accusa. Non ricordo bene come finì, ma mi rimase un certo disagio, superato solo dopo qualche anno, quando la madama in questione mi chiamò per dare delle ripetizioni alla figlia.
Non è questa , ma tanto per dare un'idea (grazie Carlo)
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