Surviving Life (Theory and Practice)

Creato il 29 giugno 2011 da Eraserhead
Occhio ai primi 3 minuti (2 e mezzo per la precisione).
Al pari di Lunacy (2005) prima che il film inizi, o forse per meglio dire all’inizio del film, appare dinanzi a noi la sobria figura di Jan Švankmajer, attesissimo come sempre ad ogni sua prova, la quale in questo caso si spera che non sia l’ultima. Ebbene, il Maestro parla a tu per tu con lo spettatore, ma quella che parrebbe essere una semplice introduzione sottende molto più acutamente una provocazione. Con Sìlenì diceva che quella non era un’opera d’arte poiché l’arte era morta. Vecchia volpe di uno Švankmajer! L’arte è viva eccome perché lui è il primo a sostenerla, a fomentarla, a crearla.
In Surviving Life (2010) l’autore compie un altro scherzetto ai danni di chi guarda. Pronunciando sottotraccia la natura del film, minimizzandone i contenuti, bollandolo inutilmente e svalutandone la resa formale, Švankmajer non fa altro che provocare, conscio del fatto che la sua pellicola è comprensibilmente tale solo se si ha seguito la sua carriera registica. Non c’entra il denaro, Prezít svuj zivot è un film così perché così doveva essere: Švankmajer è un genio sconosciuto che da anni e anni produce Arte fuori dalla logica del commercio, anche perché le due cose non andrebbero granché a braccetto. E il risparmio sugli attori, sul catering, ecc., anche se reale non giustifica sicuramente l’essenza dell’opera. Švankmajer fa cinema, e questo è il suo prodigioso, estroso, inattaccabile modo di fare cinema.
Poi, oltre questi primi minuti c’è tutta una storia che in salsa stop-motion oscilla tra ironia e surrealismo, da sempre assi portanti nella produzione dell’animatore ceco che hanno avuto la propria summa totale nell’imprescindibile Little Otik (2000). La vicenda affastella minuto dopo minuto trovate degne del nome che le ha create, da piccoli preziosismi (Freud e Jung che si spalleggiano durante le sedute di analisi) e forse riferimenti personali (la moglie Eva) alla presenza costante di figure simboliche (le mele che rotolano, il serpente-uomo che striscia), senza dimenticare la ricorrente scelta tecnica di riprendere il Dettaglio con primissimi piani, principalmente le bocche, seguendo così una tradizione stilistica che dura dai tempi di Alice (1988).
Il doppio registro realtà/sogno che incarna, a mio parere, una delle tante essenze del cinema, sfrutta al massimo delle potenzialità la storia personale del protagonista, il quale a lungo andare si trova a dover fronteggiare un corto circuito spazio-cine-temporale che annoda inestricabilmente il quadro onirico a quello concreto. Ciò che l’autore squaderna è una dedica affettuosa verso la settima arte che diventa luogo per una seconda vita così come lo sono i sogni. Il cinema è un sogno [1], e Švankmajer è l’ultimo dei sognatori, lo Jean Vigo della nostra epoca.

L’immaginazione è sovversiva perché oppone ciò che è possibile a ciò che è reale. Per questo tu usa sempre l’immaginazione più sfrenata. L’immaginazione è il dono più grande che l’umanità abbia ricevuto. E' l’immaginazione che rende l’uomo umano non certo il lavoro. L’immaginazione, l’immaginazione, l’immaginazione...

Settino punto del Decalogo di Jan Švankmajer.
_______
[1] Bibliothèque Pascal (2010) docet.

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