Preferisco non pensarci.
E l'autore di Surviving Sarajevo lo sa. Parla a me quando dice:
Solo pochi anni fa, ogni volta che al telegiornale si parlava dell’assedio della mia città – capitava sempre nel momento in cui stavi scolando la tua pasta fumante – pensavi bene di cambiare canale: certo preferivi, mentre succhiavi il tuo spaghetto ben unto di pomodoro, deliziarti con ragazzine scosciate che, con la scusa di cantare le parole dello stacchetto, simulavano rapporti orali lanciando alla telecamera sguardi lascivi che sembravano diretti proprio a te. Erano così convincenti, quegli sguardi, che non potevi fare a meno – l’occhio fisso sullo schermo – di pulirti il muso col tovagliolo, che non stava bene presentarsi a una signorina così disponibile con la faccia imbrattata di pomodoro.
Ora è diverso. Stavolta, che ti piaccia o no – che tu lo voglia o meno, lettore – verrai con me a fare un giro di giostra nella Sarajevo assediata. Vedi di non costringermi a tirarti per la manica come un marmocchio riottoso: i cecchini potrebbero notare i nostri armeggi e fare fuoco su di noi. Proprio come in quei videogame sparatutto che ti piacciono tanto. Occhio, però, che qui la scritta “game over” ha il sapore metallico del sangue. Il tuo.
Parla a me e a voi. Appena ho letto l'estratto sopra, ho capito che non potevo non leggere questo libro. A parte le parole appassionate con cui ne parlava Manu nella sua recensione, a cui non aggiungo molto altro perché credo non ce ne sia bisogno, quello che mi ha colpito è stato subito lo stile dell'autore. Mi ha colpito non solo per il ritmo, ma soprattutto per il "prendere o lasciare" di fondo, una certa durezza che non mi avrebbe chiesto di piangere usando parole tristi o addolorate, non mi avrebbe forzato in ogni modo. Mi avrebbe raccontato i fatti, solo quelli.
Io credo che, se leggerete questo libro, vi piacerà moltissimo. Perché parla di guerra, è vero, ma non è un libro di guerra. O almeno non solo. È un libro di amore e di amicizia; di persone che conoscerete, di famiglie di cui farete parte e che non potrete più confondere nella massa delle "vittime". Personaggi splendidi, vivi, che sembrano reali eppure tanto eroici nella loro desolata "vittoria"; perché in guerra, la vera vittoria non si ottiene mai. Come in quella poesia di Bertolt Brecht, "La guerra che verrà":
La guerra che verrànon è la prima. Primaci sono state altre guerre.Alla fine dell’ultimac’erano vincitori e vinti.Fra i vinti la povera gentefaceva la fame. Fra i vincitorifaceva la fame la povera genteegualmente.