In questo articolo dal titolo volutamente provocatorio intendo raccogliere alcuni appunti sparsi sul concetto di sviluppo sostenibile, sempre più in voga con la diffusione delle idee ambientaliste, altermondialiste e infine decrescitiste. In breve, secondo le correnti maggioritarie di questo tipo di movimenti e scuole di pensiero, è possibile conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente.
Innanzitutto, mi sembra che si faccia molta confusione. Io non sono un esperto di economia, ma noto che affermazioni simili non si curano di distinguere tra sviluppo e progresso: per dirla con Pasolini, che tanti amano citare per le sue considerazioni sui «proletari in divisa» ma in pochi ricordano per quelle sul consumismo, «questo sviluppo è la produzione intensa, disperata, ansiosa, smaniosa di beni superflui mentre il progresso è la produzione di beni necessari». Parlare di “sviluppo sostenibile”, senza specificare che cosa si intende per “sviluppo”, specialmente in un’epoca in cui la classe dirigente giustifica le proprie scelte attraverso un’imposizione violenta del pensiero unico mediata soprattutto dal linguaggio, può essere fuorviante e rischioso, perché in tali condizioni non specificare significa accettare la posizione dominante (in questo post scrivevo che «è più facile che un contenitore vuoto sia riempito da ciò che è abbondante»).
E la posizione dominante ovviamente è quella che predilige l’aspetto economico dello sviluppo e lo identifica con la crescita economica. Crescita dei profitti prima di tutto: diritti, benessere, socialità, insomma qualità della vita sono accessori compresi solo se il loro incremento è possibile senza compromettere la crescita economica.
Iniziamo quindi a mettere i puntini sulle “i” e chiamiamo lo sviluppo sostenibile con più chiarezza: “sviluppo economico sostenibile”.
Ora, il concetto della sostenibilità ambientale risale agli inizi degli anni Settanta, quando il Club di Roma, circolo di scienziati, economisti, attivisti e politici, pubblicò il famoso Rapporto sui limiti dello sviluppo, ovvero uno studio scientifico in cui per la prima volta si riconosceva che, se i tassi di sfruttamento delle risorse, crescita demografica, inquinamento si fossero mantenuti costanti, entro un secolo al massimo si sarebbero verificate (non necessariamente in contemporanea) una serie di crisi dovute alla finitezza delle risorse.
Non serve studiare troppa chimica per sapere cos’è lo stato stazionario: una condizione in cui le grandezze di un sistema si mantengono a valori costanti nonostante la presenza di processi che, considerati singolarmente, provocano variazioni di tali grandezze. Per i profani, l’esempio più semplice è quello di un tubo attraversato da un liquido a velocità costante: il processo di ingresso a un capo del tubo tende ad aumentare il volume del liquido al suo interno, ma in ogni istante il tubo contiene lo stesso volume perché il processo di uscita all’altro capo coinvolge lo stesso volume di liquido che entra. Lo stesso vale per un organismo vivente, che nel corso della propria vita consuma una quantità di risorse pari anche a centinaia di volte il proprio peso.
Ciò implica (e in proposito raccomando Collasso di Jared Diamond) l’adattamento dei ritmi di produzione ai tempi richiesti dalla natura per il rinnovo delle risorse (nel caso delle risorse rinnovabili) oppure la sperimentazione di tecnologie che possano sostituire le risorse non rinnovabili con risorse rinnovabili. Questo significa che, raggiunto l’equilibrio tra ritmi di produzione e tempi naturali, si deve avere “crescita zero”.
Alla luce di queste considerazioni, appare evidente che l’espressione “sviluppo sostenibile” è un non-senso, se non si respinge l’idea che lo sviluppo si misuri in termini di crescita economica: perché si abbia sviluppo economico deve esserci crescita, perché si abbia sostenibilità deve esserci almeno lo stato stazionario ossia crescita zero o decrescita. Le due cose quindi sono inconciliabili.
Sia chiaro che con questo non intendo dire che gli sforzi compiuti da associazioni ambientaliste o istituzioni politiche siano del tutto futili; piuttosto, ci si deve rendere conto che a lungo andare il capitalismo (basato sulla crescita e l’accumulo) e la sostenibilità non possono coesistere in quanto si escludono reciprocamente. Prima o poi arriverà sempre il momento in cui l’accettazione della crescita come principio indiscutibile dovrà fare i conti con la realtà, in cui le risorse sono limitate e quelle rinnovabili si rigenerano in tempi non nulli. L’unico progetto reale di sviluppo sostenibile è quindi quello che passa per la messa in discussione del capitalismo.