Un giovane Mosé allucinato che guidò la sua band fino alla Terra promessa, ma, al momento dell’ingresso, si perse. Sempre che per lui il successo planetario ottenuto con quel suono epico e monumentale, a cui approdarono i Pink Floyd dopo aver esaurito la straordinaria eredità creativa di Barrett, potesse rappresentare la terra promessa. E sempre che i Pink Floyd non avessero potuto raggiungere ben altri approdi, meno concilianti col gusto dominante, se Syd non fosse naufragato. Ma la storia del rock non è fatta di ipotesi e dice che i Pink Floyd l’hanno segnata come poche altre band, mentre il loro ispiratore, dopo essere stato poco più che ventenne, la principale attrazione della scena psichedelica londinese, si eclissava rapidamente.
Roger Keith Barret, nato a Cambridge il giorno dell’Epifania del 1946, manifestò precocemente attitudini artistiche, interessandosi inizialmente alla pittura e alla scrittura. In particolare, rimase estremamente affascinato dal Book of nonsense, raccolta di brevi componimenti in versi (Limericks), corredati da illustrazioni, di Edward Lear, singolare figura di letterato, illustratore e viaggiatore dell’ottocento inglese. Il surrealismo, il nonsense e il gusto per la filastrocca di Lear influenzarono non solo la scrittura di Barrett, ma rimasero in eredità ai Pink Floyd, ben oltre la fuoriuscita di Syd (il nome lo mutuò da un musicista jazz conosciuto negli anni del Liceo).
Iscrittosi alla Camberwell School of Art, nei sobborghi di Londra, si divise tra gli studi di pittura e il crescente interesse per la musica, iniziato a Cambridge con l’acquisto e la pratica dei primi strumenti musicali – un Ukulele e un banjo, per approdare infine alla chitarra – e i progetti di costituzione di una band con gli amici Roger Waters e Bob Klose. In questo periodo, Syd compose le sue prime canzoni, Golden Hair (su testo tratto dalla Chamber music di Joyce) ed Effervescing elephant (da Edward Lear), pubblicate rispettivamente nel primo e nel secondo album solista. Aggregatosi alla band di Waters e Klose, anch’essi trasferitisi a Londra per studio e in cui suonavano anche Richard Wright alle tastiere e Nick Mason alla batteria, ne diventò ben presto il leader, in virtù della sua vulcanica e poliedrica creatività, tanto da battezzare la band, mutuando il nome da due dei suoi bluesmen preferititi, Pink Anderson e Floyd Council. Intanto, Syd aveva preso l’abitudine agli stupefacenti, passando dai canonici (per l’epoca) cannabinoidi e allucinogeni, al Mandrax, un farmaco dagli effetti simili ai barbiturici.
La band prese come quartier generale la casa di Mike Leonard, un tecnico luci che accompagnava prove e performance del gruppo con i suoi light shows. Le esibizioni dei Pink Floyd iniziarono a farsi più frequenti e, nel giro di pochi mesi, divennero attrazione fissa della fucina della psichedelia londinese, l’Ufo Club. Syd sfornava brani a getto continuo, rielaborando in chiave psichedelica la forma canzone folk-blues, fino a giungere alla destrutturazione totale, con pietre miliari della storia del rock come Interstellar overdrive e Astronomy domine. Proprio questa radicalizzazione sperimentale fu la causa dell’abbandono di Bob Klose, legato al blues più tradizionale.
Nell’autunno del 1966, divenuti ormai un punto di riferimento della scena underground londinese, decisero di fondare con i manager Jenner e King la Blackhill Enterprise per la promozione e la distribuzione delle imminenti produzioni discografiche. Nella prima metà del 1967 i primi due singoli, Arnold Layne e See Emily play ottennero entrambi un successo imprevisto; il secondo, valse alla band addirittura il passaggio televisivo nel principale programma di musica giovanile della BBC, Top of the pops. Ormai i tempi erano maturi per il primo album.
The piper at the gates of the dawn uscì il 5 agosto 1967, salutato dagli osanna della critica e da un lusinghiero successo di vendite, quantomeno in Inghilterra. I brani, quasi esclusivamente composti da Barrett, spaziavano dalla rivisitazione acida e stralunata della tradizione folk-blues alla sperimentazione più radicale, con una formula volutamente aperta all’improvvisazione live. Un crogiolo di armonie precarie e dissonanti, sonorità astrali e noise, improvvisazioni dilacerate e minimali.
Giunto alla consacrazione, Syd crollò psichicamente. L’abuso di stupefacenti, la gabbia del personaggio di genio sregolato che si era creato, lo stress dello showbusiness e la sovraesposizione ai light shows di Leonard, unitamente a una più che probabile predisposizione genetica a patologie schizofreniche o epilettiche, lo fecero scivolare in breve tempo dall’innocua eccentricità all’alienazione paranoica completa. Nella vita privata, iniziò ad avere atteggiamenti vessatori nei confronti delle sue fidanzate e ad essere sconnesso negli atteggiamenti; in studio e sulla scena, si trasformò dal carismatico sacerdote della psichedelia a un fantasma incapace di stare dietro al resto della band e di fissare le ispirazioni creative in brani compiuti.
Inizialmente, gli venne affiancato una vecchia conoscenza, il chitarrista David Gilmour, col compito di coprire le sue mancanze. Ma Syd ormai si era irrimediabilmente estraniato da tutto: durante le esibizioni, scordava senza motivo la chitarra e suonava su una corda sola, si accovacciava sul palco fissando il vuoto, fino ad arrivare ad abbandonare la scena nel bel mezzo di un concerto o a sparire al momento di salire sul palco. Waters e compagni si trovarono di fronte a un bivio: allontanare Barrett dal gruppo o compromettere una carriera musicale che si preannunciava straordinaria. Manco a dirlo, prevalsero le ragioni del gruppo e Syd venne estromesso ufficialmente nell’aprile del 1968.
Barrett, sostenuto dai produttori Jenner e King che avevano deciso di puntare sulla sua carriera solista, piuttosto che sul resto della band, cercò di portare avanti il suo discorso musicale e, dopo varie vicissitudini, all’inizio e alla fine del 1970 pubblicò due album, The madcap laughts e Barrett. Nonostante tutto riuscì a creare due lavori più che dignitosi, continuando sul sentiero della rielaborazione della tradizione folk-blues, ma senza eccessi sperimentali, rimanendo sempre nell’ambito della forma canzone. In The madcap laughts, suonarono, tra gli altri, i tre Soft Machine Wyatt, Ratledge e Hopper. In un secondo tempo, per cercare di mettere un po’ d’ordine nella caotica creatività di Syd, vennero coinvolti Gilmour e Waters, i quali lavorarono anche per il secondo album, specie dopo che Barrett, di punto in bianco, abbandnò gli studi a metà dell’opera. Fu soprattutto Gilmour, con un lavoro certosino, a trovare la quadratura del cerchio per consegnare il testamento musicale di Barrett alla storia del rock.
Dopo la pubblicazione dei due album che non suscitarono particolari entusiasmi sia nel pubblico che nella critica, Syd si eclissò ulteriormente. Le poche notizie dei suoi ultimi 35 anni rimangono avvolte nella leggenda: un ricovero in ospedale psichiatrico, un tentativo fallimentare di creare un nuovo gruppo e rilanciarsi, qualche intervista, l’apparizione negli studi di registrazione, spelacchiato e ingrassato, riconosciuto a stento dagli ex compagni che stavano registrando Animals, l’album successivo alla retorica commemorazione di Wish you were here. Infine, il definitivo rientro a Cambridge, dalla madre, dove Syd, ritornato Roger, si dedicò alla pittura e al giardinaggio fino alla morte, arrivata il 7 luglio del 2006 per un tumore al pancreas.