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Difficile dire dove sia ambientato questo film (sì, ok, l’ospedale, ma è solo un mero contenitore, scenografia, non trovate?) e difficile, anche, inquadrarlo temporalmente. Forse c’è un prima e un dopo, almeno nella diegesi sembra esserci, e forse ci sono anche delle persone che popolano queste due porzioni di tempo, tra l’altro anche le stesse persone, o magari le stesse persone ma in qualche modo diverse, reincarnate?, che si perdono e si ritrovano, si annodano, si sottraggono.
Di certo (di certezze non ce ne sono, ça va sans dire) è un cinema che si forma nello spazio poiché è lo spazio a formare il cinema. Gli attori sono spesso ripresi a figura intera, sono oggetti nel paesaggio, che sia esso un parco o un ambulatorio, e Weerasethakul pare disinteressato al singolo uomo in quanto tale, piuttosto sembra orientato a cogliere stralci del loro amore con la sua mdp-cannocchiale. È distante da quei dottori, siamo distanti da quei dottori, osserviamo, contempliamo. E a loro volta si osservano, si contemplano a vicenda in un gioco di silenzi ed eclissi solari, di piante luminose, di sogni (“volevo fare il dj, sono diventato un monaco”), in due parole: si avvicinano, e si allontanano. Difficile, ancora, dire i perché e i percome di tutto questo, ma credo si tratti di ottusità occidentale, della ricerca assennata di una causalità. Le cose accadono, punto. E ritornano.
Si diceva di un prima e un dopo. È l’aspetto più evidente, d’altronde. Rafforzato, per di più, dalla presenza di alcuni dialoghi riproposti da altre angolazioni. Basta un intermezzo pizzicato dalle corde di una chitarra e ci ritroviamo in un altro ospedale (sarà lo stesso ma… in un altro tempo?), più moderno, più bello, più freddo, anche. Il malessere trasmesso dall’obiettivo del regista si fa quasi lynchiano con quel serpeggiare tra le stanze le corsie e gli anfratti della struttura. E poi quel soffermarsi sui lavori in corso, sui macchinari, sulle statue. La natura sfuma, restano le persone che ad ogni modo continuano a non trovarsi (il tizio che ha l’erezione rincorre poi la donna in un corridoio) e un buco nero immortalato dopo un’indimenticabile sequenza che fa da monito.
C’è quindi un cambiamento immutato e allo stesso tempo mutante in questa seconda parte, il segno di una metamorfosi tra il prima e il dopo. Allora, ancora per l’ennesima volta forse, è un cinema che oltre ad essere formato e a formarsi nello spazio, è costituito e si costituisce nel tempo.
L’impatto con Weerasethakul è stato forte. Forse Sang sattawat è un capolavoro, forse è un’intelletualata snob, forse (non) mi è piaciuto. Certamente (e stavolta è una vera certezza) guarderò anche tutto il resto.
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