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Sulle rive di un fiume cristallino ripiegavano su se stessi alberi antichissimi che avevano visto guerre atroci, che avevano vissuto il dolore e la sofferenza, restandone segnati. Ma erano banalmente sopravvissuti senza rendersene conto, e tutto il tempo che era passato adesso si confondeva negli anfratti dei ricordi. Quanto ne era passato di tempo? Alcuni dicevano un anno, altri due, chi cento, chi un giorno. Nessuno lo ricordava, c’era solo il fiume che continuava a scorrere, e quel fiume era Dio.
Charlie Kaufman, per la prima volta dietro la mdp, edifica il film più grande degli ultimi anni.
No, forse non lo sarà per un milione di validi motivi, ma Synecdoche, New York (2008) grande lo è davvero. Checché ne pensiate quest’opera livellata verso l’alto desume come un imbuto l’esperienza di esistere, quell’ostinata mediocrità che pesa sulle spalle di un universale Philip Seymour Hoffman, quell’ostinata mediocrità che appesantisce il cuore prima di dormire. La prospettiva su cui il film si muove non è di certo salda né lineare, come Kaufman ha dimostrato nelle sue sceneggiature passate gli aspetti filmici tendono a venir fusi nella realtà (se diegetica o veramente vera non lo so) fino a non poter distinguere cosa sia reale e cosa no. Qui il discorso si ingigantisce perché non sono solo luoghi immaginifici a sovvertire la percezione della realtà (Essere John Malkovic e Se mi lasci ti cancello), bensì le persone, gli esseri umani che venendo moltiplicati amplificano grottescamente (e squisitamente) la condizione crasica dell’incontro per cui ogni uomo è un mondo. Ed ogni mondo è un uomo.
Adele, Sammy, Claire, Hazel, Olive, Maria. Il loro mondo si incontra con quello di Caden, ed è un impatto a volte dolce, a volte distruttivo. Per lui, per loro. Il geniale incedere della pellicola (di)mostra l’ovvietà, sottolineata dal sermone del prete, con cui si consuma il vivere umano. E lo fa sminuendo il valore dei suoi protagonisti sdoppiandoli in quelle che paiono delle misere caricature di loro stessi. La mente (Dio?) che progetta, rimugina, biascica la mastodontica impresa è il regista, Caden, colui che per liberarsi, forse, di un ipocondria cronica, sceglie di gettare tutto il suo male nell’opera teatrale definitiva, quella che sia in grado di ripercorrere la sua vita frammentata sempre alla ricerca di qualcosa che ovviamente non troverà mai. Ma il procedimento per cui la finzione riproduce la realtà innesca delle dinamiche che non per caso si rifanno a ciò che è già successo; accadono così gli stessi innamoramenti sebbene si tratti di personaggi (mondi) differenti, si ripetono le stesse tragedie (tutte le donne del film muoiono) soffocando la storia in un surreale harakiri, mentre il perno, l’architrave di tutto, e quindi di ogni cosa, Caden, continua a perdere, a vivere di mestizia.
Il grande paradosso – forse LA figura retorica del film – sta nel personaggio interpretato da Hoffman, il quale sebbene sia il creatore, il regista che sta dietro il palcoscenico, e quindi colui che dovrebbe dirigere, vede nel finale il passaggio da deus ex machina a piccolo attore guidato da un auricolare collegato ad una donna che lo ha sostituito. Lei è Caden, e Caden è lei.
Ma Caden è anche New York. Col materializzarsi dei suoi fantasmi, della finalmente morte arrivata, anche la città costruita da lui sfracella su se stessa, perché era stata essa ad aver donato la vita al tormentato regista. Perché il mondo di Caden sebbene fosse quello più illuminato, non era meno banale di quello degli altri, che una volta scomparsi non avevano dato più senso alla sua vita.
Anche l’acqua del fiume azzurro non ricordava quanto tempo fosse passato. Si sforzava chiedendo aiuto ai pesci che liberi vi sguazzavano dentro, poi lo chiese all’erba infinita che le faceva compagnia, lo domandò anche al soffice vento che li accarezzava tutti. Ma nessuno rispose. Poi un giorno arrivò una formica che timidamente si affacciò all’ansa del fiume, tirò un lungo sospiro e disse a tutti del tempo, e di quanto ne fosse andato. La formica restò immobile, anche lei era Dio.
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