Magazine Cinema
È vero che lo stile identifica immediatamente l’appartenenza a questa fetta di cinema ungherese che tanto ci ha fatto stropicciare gli occhi, e il bianco e nero, la dilatazione temporale, le fluttuanti manovre di ripresa e la stiticità verbale sono lì a rimarcarlo, però, anche a confronto diretto con il precedente Szürkület, l’impressione è che a Szenvedély manchi quella solennità tipica della corrente a cui appartiene, soprattutto nella seconda parte dove la vicenda si invischia nelle aule di tribunale per concentrarsi sui sotterfugi, o sui possibili sospetti e conseguenti tradimenti, la morsa dell’attenzione viene meno, delle crepe venano l’esposizione del legame tra i novelli fidanzati, la chiarezza si imbrunisce ed anche la risoluzione dell’inghippo da parte dell’avvocato arriva in modo soft, normale ingranaggio del meccanismo narrativo. È appunto la normalità a tenere con i piedi piantati per terra Szenvedély, il cinema di Tarr è cinema che diventa epica (dell’uomo), ogni sua opera è un trattato di mitologia moderna che ci obbliga ad un’estrema lettura delle istituzioni che costituiscono la settima arte, instillando poi Verità illuminanti sul mondo e sulla realtà che sta oltre lo schermo, certo Passion è un film di Fehér e forse non è corretto ricercare al suo interno l’impronta teorica di un altro autore, ma è questo che qui latita, Szenvedély non è un film che nuota nell’universalità, al contrario si accontenta di stazionare nella provincia e di essere il surrogato di una materia che ha partorito manifestazioni ben più verticali. Con onestà: ci aspettavamo qualcosina di meglio.________[1] Il prologo in questione assomiglia un poco (ma poco) a quello de Le armonie di Werckmeister (2000), simile stanza spoglia, simile danza sbilenca.
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