Era una plumbea mattina di primavera, non ricorda esattamente il giorno, sostiene Pereira. Il termometro politico, sociale e perfino culturale dell’Italia era dato, come da un anno a questa parte, dalla lettura quotidiana dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, come se ciò bastasse a spiegare le ragioni di una crisi che è intellettuale prima ancora che finanziaria. Seduto al Café Orquídea, si era concesso il lusso dell’eterna limonata, sebbene una robusta brezza atlantica infreddolisse Lisbona. Pereira era circondato da una selva di giornali italiani del giorno precedente e a guardarlo dall’esterno faceva una buffa impressione, un pingue redattore culturale di un quotidiano portoghese annegato in faldoni di poltica estera. Aveva preso da un po’ di tempo a questa parte l’abitudine di fare queste inusuali rassegne stampa principalmente per due motivi, sostiene. Il primo era di carattere conoscitivo. Voleva innanzitutto indagare meglio il Paese dello scrittore che aveva scelto di narrare la sua storia a mezza Europa. Sostiene infatti Pereira che il rapporto tra un personaggio e il suo autore non debba essere unidirezionale ma debba muoversi nei due sensi. I personaggi non sono più in cerca di autore, o meglio, non si fermano soltanto al suo rintracciamento ma vogliono penetrarlo, sviscerarlo, vivisezionarlo per carpire le ragioni profonde della scrittura che fa sì che essi si apprestino a determinate narrazioni e non altre. Il secondo motivo ha a che fare con dei ricordi personali e Pereira sostiene che è inutile rivelarli perché esulano da questa storia. I suoi pensieri furono interrotti da un sommesso colpo di tosse di Manuel, il cameriere, che voleva richiamare la sua attenzione. «Aspetta qualcuno?», chiese Manuel con tono composto a causa della sua intrusione. Pereira ebbe un sussulto, si destò con un leggero scrollo delle spalle e rispose: «Sì, il signor Antonio Tabucchi. Abbiamo in mente un nuovo progetto letterario, sta cercando di convincermi a narrare un paio di avventure antecedenti l’ultimo libro scritto insieme». Il viso di Manuel si rabbuiò d’improvviso, saltando financo la fase dell’annuvolamento. «Oh – sospirò con tragicità – pensavo ne fosse già a corrente, i quotidiani italiani non hanno ancora scritto niente?», indicando lo scartafaccio di fogli disseminati per il tavolo. «Mi sembra di averti già detto una volta che dai giornali non si apprende nulla, soltanto voci. È dai bar, dalle piazze, dalle strade che le notizie vengono a sapersi!», sostiene Pereira di aver risposto. «Antonio Tabucchi è morto – disse allora d’un fiato il cameriere – ieri notte, proprio qui a Lisbona», riprese con più calma. «Era malato da tempo di cancro», continuò Manuel come se dovesse toccare a lui informare il dottor Pereira di quell’evento fondamentale, sebbene lo avesse nascosto fino all’ultimo. Più tardi Pereira sosterrà di essersi amaramente pentito del primo pensiero che gli sorse in testa alla notizia. Sostiene infatti Pereira che in quel momento la mente andò subito a Monteiro Rossi, alla forma che il ragazzo avrebbe dato al necrologio che gli sarebbe toccato curare per la pagina culturale del Sabato del “Lisboa”, fosse stato vivo anche lui. Pereira sudò copiosamente dalla schiena, nonostante il freddo ormai si fosse fatto pungente.
«Tabucchi morto», pensò con quel po’ di residuo d’energia che gli era rimasta. A lui, il dottor Pereira, grasso, flaccido direttore della pagina culturale di un modesto giornale del pomeriggio di Lisbona, vedovo e senza figli, annaspante in un passato ancora troppo presente, era toccato sopravvivere al suo autore. La legge pirandelliana della superiorità dei personaggi rispetto agli scrittori si era così ancora una volta eternata. A quel punto le sue labbra si piegarono leggermente all’insù, quasi inconsapevolmente, sostiene Pereira. Il riferimento a Luigi Pirandello avrebbe sicuramente fatto piacere ad Antonio Tabucchi. Era infatti il primo scrittore omaggiato nella loro fatica letteraria “Sostiene Pereira”, uscito nel 1994. Pereira, senza avvedersene, si rilassò ancora più mollemente sulla sedia e si abbandonò a un effluvio di sensazioni. Antonio Tabucchi era un personaggio schivo, atipico, contrassegnato da un binomio di personalità che a prima vista potevano sembrare antitetiche. Era difatti un intellettuale italiano che risiedeva per la maggior parte dell’anno nell’amata Lisbona o a Parigi, non nascondendosi però nella saccente figura di esule o “rifugiato”. Che scrivesse su “Le Monde” o sul neonato “Il Fatto quotidiano” (cui da subito contribuì alacremente con articoli e suggerimenti, come ricorda il vicedirettore del suddetto giornale Marco Travaglio) non rinunciò mai a prendere posizioni, spesso scomode ma mai banali, sulle vicende del suo Paese natale. Ma l’impegno civile più partigiano da raffinato polemista trova la sua migliore espressione proprio in “Sostiene Pereira”. Al di là della simbologia mediatica che assunse alla sua uscita (la prima edizione del libro coincise con la discesa in campo politico di Silvio Berlusconi e ne divenne un contraltare ai limiti del feticismo), a distanza di 18 anni il romanzo conserva intatti quegli elementi che piacquero trasversalmente a pubblico e critica. Tabucchi in “Sostiene Pereira” ricorre innanzitutto a una scrittura semplice, priva di orpelli, in prevalenza paratattica. Rinuncia consapevolmente a un qualsiasivoglia stile letterario più formale per far sì che sia il protagonista a raccontarsi, come se stesse compiendo un mero resoconto di avvenimenti. Il celebre sintagma “Sostiene Pereira” (declinato anche in “Pereira sostiene” e fino ad arrivare al puro inciso “sostiene”, giustapposto a fine periodo) è allora spia di questa scelta. L’aver deciso di farlo addirittura assurgere a titolo del romanzo è indice di un’ulteriore radicalizzazione in un senso più affettivo che pavido. Mi spiego. Dichiarare, fin dalla copertina, che il libro sia un “dispaccio” di ciò che Pereira sostiene essere avvenuto nella sua vita in una torrida estate del 1938 è, non come alcuni critici capziosamente hanno sostenuto, una presa di distanza autoriale da ciò che si narra (come se questo fosse possibile!), ma l’esplicazione di una poetica dell’autore.
Come chiaramente sviscerato nella postilla posta in calce all’edizione Universale Economica Feltrinelli, Tabucchi spiega che egli è solo il tramite fisico tra il racconto di Pereira e il pubblico, mostrando in questo modo di aderire in toto alle famose teorie pirandelliane. Per tornare al lato tecnico della scrittura, si può osservare come Tabucchi mutui da José Saramago, lo scrittore portoghese premio Nobel per la letteratura, l’accorgimento di rinunciare alla forma canonica del dialogo inframmezzato dai trattini e gli a capo, a favore di una scrittura più omogenea e senza stacchi. Se visivamente l’impatto può sembrare stancante, alla lettura vera e propria, le 200 pagine del romanzo scorrono invece via con leggerezza per la sopraccitata lievità della prosa. “Sostiene Pereira” è un libro denso di avvenimenti pur nella sua staticità. Non c’è spazio per le descrizioni, i lineamenti fisici dei personaggi sono appena abbozzati (Monteiro Rossi ha una ciocca di capelli che gli cascano sulla fronte, il dottor Cardoso ha pizzo e capelli castani), ma queste poche pennellate, continuamente ripetute, li rendono subito familiari. Così come al lettore sembra presto di essere in mezzo alla Lisbona degli anni Trenta, o almeno a quei 3/4 posti frequentati dai personaggi, dal Café Orquídea alla sede della redazione culturale del “Lisboa” in Rua Rodrigo da Fonseca. Tabucchi rende bene la placidità di una quotidianità scandita financo dagli stessi riti (la ricerca del posto vicino al ventilatore da parte di Pereira o i battibecchi con la portiera) e dalle stesse abitudini culinarie (l’omelette alle erbe aromatiche e la limonata). Sembra che nulla possa turbare l’equilibrio di una vita che, senza scosse, continua a ripetersi sempre uguale a sé stessa per un modesto redattore culturale di un modesto giornale del pomeriggio. Ma l’anno di grazia in cui si svolge la vicenda è il 1938, Salazar ha già instaurato la sua dittatura e la polizia tortura e uccide gli oppositori in interrogatori brutali. Insomma, la storia si intreccia indissolubilmente, anche quando si cerca di fare a meno che ciò avvenga, con la vita di Pereira e dei molti Pereira che compongono l’umanità. Tabucchi usa allora tutti gli stilemi consolidati della tradizione del romanzo di formazione di matrice illuministica, e li cala in quel periodo così tragico per la storia del Portogallo e dell’Europa (checché ne pensi il professor Silva, che con cinismo machiavellico, rappresenta il conservatorismo degli intellettuali del tempo dicendo: «Qui non siamo in Europa, siamo in Portogallo»). “Sostiene Pereira” rappresenta allora l’esplicazione narrativa della presa di coscienza del suo protagonista, del suo cammino di formazione narrato attraverso piccoli passi che possono sembrare insignificanti a uno sguardo sommario ma che rivelano ben altro alla visione d’insieme del lettore.
È il Caso il motore della vicenda (e della vita, per metonimia, come si può evincere facilmente). Pereira legge uno stralcio della tesi di Monteiro Rossi in un pomeriggio sonnacchioso dell’estate lusitana. Da quando sceglierà di instaurare una collaborazione con il ragazzo, i suoi rituali verranno stravolti dalle turbolenze esistenziali del suo redattore. C’è una tensione etica felicemente irrisolta nel libro, nella sua duplicità. Da un lato è innegabile che dall’ideologia marcata di Monteiro e la sua ragazza, Pereira venga spinto al ripensamento della sua esistenza prima, e all’azione poi. In tal senso, risulta significativa l’esternazione di Marta, che dopo aver assistito alla difesa ad oltranza della moderazione da parte di Pereira, non può fare a meno di sbottare: «Noi non facciamo la cronaca, dottor Pereira, è questo che mi piacerebbe che lei capisse, noi viviamo la Storia». Dall’altro lato Tabucchi “salva” Pereira già prima, anticipando la sua svolta con precisi riferimenti. Se prima di quel fatale incontro il protagonista sentiva una non delineata voglia di pentimento, sarà solo con il dottor Cardoso che riuscirà con drammaticità a dire: «Se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso avere studiato lettere a Coimbra e avere sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione e dove devo pubblicare racconti dell’Ottocento francese, non avrebbe senso più niente, è di questo che sento il bisogno di pentirmi». Un altro dei temi di cui è imbevuto il romanzo è sicuramente l’amore incondizionato per la letteratura. Partendo dall’escamotage dei necrologi di cui Monteiro Rossi è investito, Tabucchi dà sfogo a molte reminiscenze letterarie, che seppur restino in superficie, danno un colore inequivocabile alla vicenda. E proprio grazie agli scrittori francesi dell’Ottocento, Pereira potrà trovare la sua personale ribellione contro la dittatura salazarista. Se con “Honorine” di Balzac introdurrà il tema, ancora cifrato, del pentimento («un messaggio nella bottiglia» lo definirà Pereira), sarà con il racconto “L’ultima lezione” di Daudet che troverà lo scontro aperto con il direttore del proprio giornale. Quest’ultimo si farà chiaro portavoce della mentalità all’epoca vigente tra gli intellettuali, del panico serpeggiante tra la classe dirigente: «Siamo noi che dobbiamo essere vigili, che dobbiamo essere cauti, siamo noi giornalisti che abbiamo esperienza storica e culturale, noi dobbiamo sorvegliare noi stessi».
In questo clima opprimente e ottuso Pereira sviluppa la sua lenta ma indefessa consapevolezza. C’è un nuovo io egemone che prende pian piano il controllo della confederazione delle anime del direttore della pagina culturale del “Lisboa”, e a cui il protagonista infine si abbandona docilmente. Non si può restare indifferenti, o peggio ancora, proni di fronte alla violenza della polizia politica che irrompe in casa e nel corso di un interrogatorio brutale uccide un ragazzo di ventitré anni che ama la vita. La ribellione di Pereira assume allora, proprio nella sua unicità, carattere universale. Di fronte alla violenza ciclica di certa storia non si può evitare di prendere posizione anche se non si è Thomas Mann, come sosteneva Pereira prima della sua svolta. L’esilio è una decisione dolorosissima, il passato un reticolo in cui non restare prigionieri, ma tutto ciò assume i caratteri dell’ineluttabile quando la democrazia viene di forza fatta straripare dal suo alveo naturale. «Dottor Pereira, sta bene? Sta bene? Sta bene?» litaneggiò Manuel per un periodo di tempo indefinibile. Sostiene Pereira che si riebbe con fatica e con lentezza esasperata da un torpore che aveva tutti i caratteri di una relazione accademica. «Cosa è successo?», ebbe appena la forza di bisbligliare Pereira. Il cameriere del preclaro Café Orquídea gli aveva nel frattempo portato un’intera brocca di limonata e adesso lo fissava con la pietas con cui si guarderebbe un morto. «Sono ancora vivo – bofonchiò Pereira con malcelato sarcasmo in risposta a quello sguardo – anzi, adesso sono il maggior residuo stampato dell’esistenza corporea di Antonio Tabucchi e porterò avanti con ancor maggior orgoglio la sua eredità culturale!» sostenne Pereira di aver detto dopo essersi alzato dalla sedia con decisione.