Tutti sbagliamo, e le persone che ci vogliono bene cercano di farcelo notare per evitare che sbagliamo ancora. La categoria di rimproveri che personalmente preferisco, perché più innocua e al tempo stesso più schietta e accanita, è quella dei rimproveri estetici. Questo genere di osservazioni rivela una morale inconscia ma collettiva, una serie di assunti fondanti che pochi si sognano persino di mettere in discussione.
Faccio degli esempi presi dall’esperienza personale di rimproveri di questo genere: essere ingrassata o dimagrita (pur mantenendo un peso sano, se no si tratta di salute e non di estetica); non essere abbronzata; non avere abbastanza seno/sedere o averne troppo; non pettinarsi o non curare le punte dei capelli, e non indossare abbastanza frequentemente i tacchi alti. E avere le maglie con i buchi.
Cosa c’è dietro a queste osservazioni apparentemente scontate? C’è l’accettazione inconsapevole e granitica delle divisioni di classe, di razza e di genere della nostra società, accettazione che si manifesta per l’appunto nel giudicare “sbagliato” un comportamento estetico rispetto al suo contrario – sbagliato in quanto segnale di una devianza.
Perché, ad esempio, non posso mettere le maglie con i buchi? (Ne ho già parlato, lo so: ci tengo a questo punto). Non denotano scarsa igiene, che sarebbe oggettivamente qualcosa di negativo, né offendono in alcun modo la persona che mi sta davanti. Però suggeriscono, vero o meno che sia, che sono una persona povera e che non sono consumista – rispettivamente una vergogna e un crimine, in una società come la nostra. Il vestito rovinato in sé non sarebbe considertao brutto: di tanto in tanto vanno di moda maglie piene di tagli, tessuti effetto vintage e jeans venduti già lisi e strappati. L’importante è che si capisca che è fatto apposta e da una fabbrica, non dal tempo, e che l’abito pre-distrutto sia alla moda in quel momento e venga indossato nel contesto giusto.
L’abbronzatura è facile da interpretare: una volta la pelle bianca era indice di un ceto alto e quella scura di appartenenza alle classi lavoratrici, e infatti l’ideale femminile era: candida e morbida; in seguito, potersi permettere una vacanza al sole è diventato prima simbolo di status e poi di adeguamento al comportamento delle masse, e da lì non c’è stata più nessuna pietà per i pallidi. Tutt’ora, le abbronzature devono essere integrali, perché si capisca che chi le sfoggia non ha proprio niente da fare; se il colorito si ferma all’altezza delle spalle, allora si distingue subito il contadino o il camionista, e questo è “brutto”.
Può sembrare un dettaglio, ma è una spia: perché mai le persone devono sgridarmi, anno dopo anno, per tutta la vita ogni estate, se non sono scura? A loro cosa importa? Mica sono brutta d’inverno e bella d’estate solo perché cambio colore! Quello che mi stanno in realtà dicendo è: non fai come noi, vergognati.
La questione dell’altezza, del seno e del sedere è ancora più affascinante per me, che avendo vissuto in Asia mi sono trovata da entrambi i lati – quello del troppo e quello del troppo poco – e ho osservato con attenzione i significati reconditi di complimenti e critiche. Sostanzialmente, si tratta di una questione razziale. Dopo l’ideale bianco e nordico di estrema magrezza, l’attuale fissazione culturale americana per il didietro formoso (non si contano le canzoni pop dedicate esclusivamente a questo tema, ed essendo cambiati i canoni le donne iniziano ad attaccarsi protesi che lo aumentino, anziché fare liposuzioni) è per me una sorta di perverso segnale di una vittoria culturale della minoranza afroamericana quasi più significativo del fatto di avere un presidente nero. Oppure, è una questione economica – sempre negli Stati Uniti, l’obesità non è come si pensa segnale di ricchezza, ma di miseria, essendo il cibo sano più difficile da trovare, più costoso e più laborioso da preparare del cibo spazzatura. Non a caso, Homer Simpson si abbuffa nei fast food e le stelle di Hollywood pubblicano libri di cucina di lusso. In Italia non penso sia diverso – non me ne voglia nessuno, ma la mia personale impressione è che si trovi maggiore grassezza in molte aree del sud Italia o nel nord al di fuori dei centri urbani più benestanti. Questo, però, quando tutti hanno comunque da mangiare e la questione è semmai mangiare bene. Avevo letto da qualche parte che in tempi di crisi, quando il cibo stesso è un problema, l’ideale femminile si sposta verso una maggiore formosità: forse è per questo che saltano fuori le modelle ‘curvy’ (curiosa parola), che in alcune zone dell’Africa le giovani donne vengono messe quasi all’ingrasso, e che anche l’ideale estetico contadino della generazione dei miei nonni sembrava preferire di gran lunga le donne floride.
E adesso veniamo ai tacchi. Nel trasloco di cui vi ho parlato, ogni oggetto in più costituiva una zavorra, e così si è posto il problema se portare con me o dare via le mie scarpe col tacco. Ormai non le metto quasi mai, però sono belle.
Vorrei soffermarmi su questo “belle”. Non c’è infatti nulla di ovvio nel trovare “bello” un oggetto asimmetrico inesistente in natura che serve a far sembrare la parte più lunga del corpo umano ancora più lunga e il resto in proporzione ancora più corto. Perché questo sarebbe bello? Perché le donne mettono i tacchi? Perché gli uomini non li mettono? Perché non risulta un’altra società umana, al di là dell’occidentale attuale, in cui è segno di eleganza e sensualità camminare sulle punte dei piedi?
È naturale stupirsi dei canoni estetici altrui, soprattutto quando comportano la modifica del corpo e a maggior ragione se dolorosa. Consideriamo una curiosità esotica, forse ripugnante, forse solo bizzarra, l’abitudine delle donne di certe tribù di allungarsi l’aspetto del collo impilandovi pesantissimi e scomodissimi collari, o di perforarsi il labbro inferiore con enormi pezzi di legno o di, nel caso di una Cina che per fortuna non esiste più, strizzarsi volenti o nolenti i piedi in fasciature dolororissime per diminuirne le dimensioni. Testa a due metri dalle spalle, labbra slabbrate, piedi larghi come zoccoli di capra: cosa ci sarà mai di bello?
Non ci sembra però molto strano che le donne della nostra società si iniettino sostanze ultratossiche o sintetiche per aumentare seni e labbra, o che appiccichino sulle proprie unghie ulteriori unghie con le quali poi non riescono neanche a battere i tasti del loro smartphone. O che si facciano venire tumori alla pelle pur di cambiare colore quattro mesi all’anno.
Magari qualcuno di voi giudica negativamente la chirurgia estetica, d’accordo. Ma qualcuno, e mi rivolgo soprattutto agli uomini, si è mai posto il problema dei tacchi?
La cosa interessante dei gusti di una società è che difficilmente sono casuali; piuttosto riflettono, come dicevo sopra, status, gerarchie e filosofie di vita. E fin qui penso di non dire nulla di controverso. Vorrei però adesso esporvi la mia personale teoria sui tacchi, partendo da questo semplice fatto: i tacchi alti rendono impossibile per una donna reggersi in piedi o camminare per più di un paio d’ore al giorno. Le più allenate sono in grado di sopportare più a lungo, ma i piedi alla fine ne vengono deformati e comunque tutte, comprese le più leggere e le più abili, hanno un limite alla propria sopportazione (e un paio di ballerine nella borsa).
Io sostengo che i tacchi, uno dei pochi strumenti di tortura autoinflitti che rimangano nella nostra società (assieme alla depilazione, guarda caso), servono a segnalare la posizione sociale della donna che li indossa: inferiore agli uomini e superiore alle altre donne.
Una donna con i tacchi non può svolgere lavori di fatica. È una donna che svolge mansioni di comando o intellettuali: lavori che pagano di più e garantiscono quindi uno status superiore rispetto ai lavori fisici più in giù nella gerarchia. Oppure è una donna così ricca che non deve proprio lavorare. Inoltre, la donna con i tacchi, non potendo camminare a lungo, dimostra di possedere un’automobile o di potersi permettere il taxi regolarmente. Per questo motivo alcuni considerano i tacchi alti un segno di potere – rispetto alle altre donne, non certo agli uomini.
Così come i corsetti sette- e ottocenteschi, e anche i piedi “loto d’oro” delle cinesi. In generale, più è scomodo un vestito più è alto il rango di chi lo porta. Gli esempi sono innumerevoli: dalle vesti con strascico e larghe maniche medievali ai vestiti pesanti e freddi delle attrici famose, che sembrano non seguire le stagioni dei comuni mortali e si vestono allo stesso modo tutto l’anno; dalle giacche e cravatte di chi lavora seduto al bianco intonso e alle scarpe lucide di chi non si sporca né mani né piedi. Nel caso raro in cui un lavoro fisico e faticoso da comunque diritto a uno status alto, anche il vestito ne diventa simbolo: pensate al valore aggiunto conferito a una semplice maglietta sintetica fatta in Bangladesh dal fatto che sopra c’è il nome di un calciatore. La stessa maglietta, ma con la scritta “Baracetti Calcestruzzi”, la mettereste solo se ve la regalassero.
Quindi, secondo me i tacchi alti rientrano in questa logica di ostentazione del lusso di poter stare scomodi. Voi direte: sì, ma quando una donna non lavora, anche se è di status inferiore può mettere i tacchi. Certo (se non deve fare lavori in casa o correre dietro ai figli), però se ci fate caso la foggia delle scarpe alla moda cambia molto velocemente, ed è praticamente impossibile alterare un paio di scarpe per farlo sembrare più moderno: bisogna comprarne di nuove. Le scarpe sono spesso costruite con materiali pregiati, e quindi quelle di qualità costano molto – sono, sia per gli uomini che per le donne, un messaggio che mandiamo non solo sul nostro gusto personale ma anche sul nostro posto nella società.
Però la donna con i tacchi alti, a differenza dell’uomo, non è libera di muoversi. Il suo equilibrio è più precario di quando non li indossa (perché una camminata ondeggiante, indice proprio di questo equilibrio precario, è considerata un richiamo sessuale?), e il dolore provocato dalle scarpe scomode e dalla posizione innaturale la rende fisicamente debole, lenta e bisognosa di essere sorretta e accompagnata. Una donna con i tacchi è una preda che non scappa.
Mi chiedo, da molto tempo: gli uomini sono attratti dalle donne con i tacchi perché le loro gambe sembrano più lunghe, oppure, inconsciamente, perché una donna con i tacchi è una donna debole?
Così come una donna con le unghie lunghe, le gonne strette o la biancheria-impalcatura: è curioso in effetti che quasi tutti i simboli sessuali siano estremamente scomodi. Persino le donne-guerriere dell’immaginario collettivo, quando vengono raffigurate nei mass-media indossano mise che renderebbero impossibile non solo vincere un duello, ma anche semplicemente portare di sotto la spazzatura.
A quanto ho visto e sentito io, più un uomo è maschilista più desidera donne che indossino i tacchi alti. Forse che per le povere cinesi i cui piedi erano ridotti in poltiglia valesse lo stesso principio? E gli eccessi delle pianelle nel quattrocento veneziano, per cui le donne camminavano così alte da doversi appoggiare alle proprie serve per non cadere, erano in fondo una dimostrazione di potere?
Un pensiero più recente che ho avuto è che i tacchi siano figli della società dell’automobile. Le donne che conosco che li indossano di frequente sono donne che non camminano volentieri e che usano la macchina, o al massimo la bicicletta, per tutti i loro spostamenti, relegando l’attività fisica alla palestra. A pensarci bene mi vengono in mente svariate serate in compagnia con una donna che trotterella faticosamente dietro agli altri e implora: andiamo in macchina, ho i tacchi alti! Ecco: non voglio più essere io quella donna. E, a dirla tutta, non voglio neanche più provare quel panico di quando sta arrivando una macchina e tu sei in mezzo alla strada con il tacco incastrato in un sanpietrino.
Io non ho smesso di indossare i tacchi alti per questioni di principio, ma perché mi ero accorta che poi avevo sempre paura di dover camminare a lungo oppure non riuscivo a ballare volentieri. Inoltre mi facevano male alle ginocchia. L’effetto peggiore era comunque quello psicologico: più che il dolore, l’alterazione del comportamento per la paura del dolore. Una vera sudditanza – e per cosa?
Per quanto riguarda invece le mie vecchie scarpe coi tacchi farò quello che sto facendo con tutto ciò che possiedo e che mi ingombra ma che comunque ha un valore estetico o affettivo: lo fotografo per non dimenticarmi com’era, e poi lo vendo o regalo. Anche questa, direte voi: finirai per rinunciare a tutto!
Come le mie altre rinunce, anche questa sarebbe reversibile, e come le altre finora non mi ha dato che soddisfazioni e liberazione. Non devo più preoccuparmi non solo del male ai piedi, ma anche delle lunghezze dei pantaloni (non tutti stanno bene con i tacchi) e dei soldi in più; inoltre, con i tempi che corrono, avere meno prodotti tra cui scegliere rende più facile e piacevole ogni acquisto. E in montagna i tacchi non mi servirebbero comunque a niente.
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