La parola principe per raccontare in sintesi la cucina veneziana è sicuramente “contaminazione” e il
desiderio di godere di ogni influenza che nel crocevia di
traffici e di relazioni trovava in Venezia un fulcro naturale.
Venezia infatti ha sempre proposto una
cultura gastronomica “europea” che trovava nel mondo romanico e in Torcello il suo esempio più fulgido, senza nascondere l’attrazione e
l’ammirazione verso l’Oriente e il patriarcato di Aquileia, lo sfarzo elegante della Basilica di San Marco e nei palazzi lungo il Canal Grande: influenze ed emozioni che si
ritrovano nella sua cucina.
Venezia inoltre ha sempre avuto un importante asso
nella manica ovvero le sue tolleranti stamperie e proprio in laguna si
iniziarono a pubblicare i primi manuali di cucina. Il primo, di un anonimo
autore, intitolato “Libro per cuoco”, rappresenta la più antica e organica
testimonianza della gastronomia veneziana: sono riportate 135 ricette descritte
minuziosamente nei pesi degli ingredienti e nel procedimento di preparazione e
cottura, con una precisione nell’ordine di esecuzione che ancora oggi non è facile trovare. Si pensa che questo trattato sia stato scritto da una
persona che si era formata lungo le corti italiane: forte infatti è
l’impronta della cultura gastronomica siciliana che aveva trovato, attorno al
1200, un grande impulso grazie all’opera di Federico II, influenzato dalla
cultura araba e dagli ingredienti che questi ultimi avevano portato in Sicilia.
Il “Libro del cuoco” quindi è
la testimonianza che la cucina veneziana accoglieva le novità che giungevano da
tutto il mondo allora conosciuto, le rielaborava facendole proprie e le condivideva nuovamente, grazie
appunto alla sua capacità di aprirsi al mondo, alla sua congenita accoglienza
ed ospitalità ed anche al desiderio di non inimicarsi nessuno per riuscire a
fare affari con tutti; dalle spezie indiane, alla castradina della Dalmazia,
allo stoccafisso delle Lofoten, allo zucchero ed ai profumi della pasticceria
siciliana e araba-persiana: Venezia riempì la propria dispensa di tutti questi ingredienti preziosi, facendone tesoro, e trasformando la sua lungimirante tolleranza in fortuna politica e ricchezza diffusa.
Un ingrediente "contaminato", grande protagonista della cucina veneziana, è sicuramente lo stoccafisso.
Nel 1431, il 25 aprile, Piero Querini partì con nave ed equipaggio diretto alle Fiandre per dei commerci ma il viaggio
si fa insidioso e sfortunato tanto che, il 17 dicembre, si vede costretto ad abbandonare la nave, oramai
priva di alberi e timone, spostando l’equipaggio in due galere, una delle quali andrà
perduta, navigando senza meta in balia delle onde per ben 20 giorni e naufragando sulle coste di
un isolotto delle Lofoten. I superstiti vengono salvati da alcuni pescatori: accolti,
rifocillati e curati per 111 giorni e durante questo periodo Querini riporta
diligentemene nei suoi taccuini gli usi e costumi di questa popolazione di
pescatori i quali, pur avendo a disposizione moltissimi pesci, ne pescano una sola
qualità (da giugno ad agosto, i mesi più propizi) ed essendo privi di sale (merce preziosissima e
costosissima) li essicano al sole e all’aria. Inoltre non coltivano poiché i
terreni sono sempre gelati e non battono moneta, utilizzando lo stocco come
merce per il baratto, con il quale ottengono gli altri semplici ingredienti
della loro alimentazione. Circondati da selve rigogliose utilizzano gli alberi per far
fuoco e costruire le piccole e semplici abitazioni.
Querini riparte dalle Lofoten nel maggio
del 1432 e riporta al Gran Consiglio la scoperta che non viene presa in grande
considerazione: a Venezia il pesce era abbondante e fresco ogni giorno
e non si capiva il motivo per cui bisognava far riserva di un prodotto secco e un po' puzzolente.
Fu più di 100 anni dopo,
durante il Concilio di Trento, che l'arcivescovo di Uppsala e padre conciliatore, Olaf Mansoon, ricordando gli
scritti del Querini e, proprio alla chiusura dei lavori, propose di inserire
questo pesce "stocco" tra gli alimenti consentiti, facendone la sua fortuna. I giorni di magro, infatti, definiti dal Concilio erano ben 150 ovvero tutti i venerdì dell'anno, buona parte
dell'Avvento, le Sacre Tempora, le principali vigilie e la Quaresima: si pensò
bene quindi di riprendere i traffici con la Norvegia per fare in modo che tutte le
famiglie rispettose dei precetti della Chiesa non rimanessero mai sprovviste
dell’indispensabile ingrediente, soprattutto in Quaresima o quando le
condizioni atmosferiche potevano essere avverse alla pesca in laguna.
Il Maffioli racconta che dopo
la battitura il "legno ridiviene polpa quasi viva ma con l'aroma di una lunga
macerazione e all'uscita dal bagno il baccalà è pronto per le avventure
culinarie fino all'incredibile marcatura che i lunghi scuotimenti ritmici, con
progressive intensità e velocità e con la graduale aggiunta dell'olio d'oliva, trasforma il baccalà in una crema deliziosa." In onore di questo pesce
essiccato sono nate nel Veneto negli anni recenti due confraternite ovvero la Venerabile Confraternita del Baccalà alla Vicentina e la Serenissima Confraternita del Baccalà Mantecato.
Il piatto di oggi è un omaggio ad un cibo povero che ha saputo declinarsi in ricette sontuose e ad una radice, la liquirizia, conosciuta ed apprezzata fin dagli Egizi, dalle molteplici qualità ma che in questo caso ho utilizzando pensando ad un piatto profumato e colorato di mediterraneo.
Tagliatelle con semola di grano duro con baccalà alla liquirizia e pomodorini secchi
Ingredienti
500 g di semola di grano duro (ho usato quella di Vero Lucano-Mangiare Matera), acqua tiepida (circa 300 g), un pizzico di sale oppure per 100 g di semola rimacinata di grano duro un uovo (circa), 500 g di baccalà già ammollato, 2 scalogni, 2 cucchiai di passata di pomodoro, 1 cucchiaino di concentrato, 3 pomodorini datterini secchi, 1 foglia di alloro, 2 bacche di ginepro, 3 grani di pepe nero, 1 bastoncino di radice di liquirizia, sale, pepe nero del Madagascar macinato al momento, liquirizia in polvere, olio evo.
Procedimento
Mettere in una casseruola il baccalà già ammollato, coprire con acqua fredda, unire gli aromi e portare a bollore. Cucinare per 10', togliere dal fuoco e lasciar riposare e raffreddare con la radice in infusione.
Nella planetaria versare la farina con un pizzico di sale unendo l'acqua un po' alla volta (mai tutta insieme e un po' alla volta perché dipende anche dalle condizioni atmosferiche e da quanta ne viene richiesta da ogni singola farina) fino ad ottenere una bella palla tonda (se lo fate a mano ci vorrà un po' di forza) da lasciar riposare coperta per circa mezz'ora. Stendere delle sfoglie ed ottenere delle tagliatelle da appoggiare in un vassoio e spolverando con altra semola.
Riprendere il baccalà, pulire da eventuali lische e pelle, tagliare a tocchetti, mondare e tagliare sottilmente gli scalogni e rosolarli in una padella con un po' di olio evo per qualche minuto, unire la passata, il concentrato e i datterini secchi tritati finemente, coprire e dopo qualche minuto unire il baccalà e cucinare per qualche minuto mentre si lessano le tagliatelle. Regolare di sale. Terminare la cottura spadellandole e terminare impiattando con una macinata di pepe e con una presa di liquirizia in polvere.