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Taglio del cuneo fiscale: i vantaggi e le risorse
Creato il 02 dicembre 2012 da Luigideganweb @Luigi_Deganlavoce.infodi Mirko Cardinale 23.11.2012
La riduzione del cuneo fiscale è un nodo fondamentale per la crescita del nostro paese. Eppure finora non è stata una priorità nell'agenda del Governo. Le risorse necessarie per un intervento significativo, magari destinato ai lavoratori più giovani. E l'impatto sulle pensioni future.La riduzione del cuneo fiscale entra finalmente nel dibattito politico con la proposta di destinare 1 miliardo dalla legge di stabilità. La notizia è sicuramente positiva, anche se il tema avrebbe potuto essere affrontato prima dal Governo, magari in occasione della riforma del mercato del lavoro o del decreto sviluppo.
UN OSTACOLO ALLA COMPETITIVITÀ
Si tratta di un nodo cruciale, che spiega la difficoltà delle aziende italiane a competere sui mercati internazionali. Secondo gli ultimi dati Ocse, il prelievo forzoso sul lavoro in Italia è tra i più alti dell’Eurozona e il gap appare ancora più elevato se confrontato con paesi quali il Regno Unito, il Giappone o gli Stati Uniti. Ad esempio, il costo del lavoro in Italia per un lavoratore non sposato è circa due volte lo stipendio netto contro un rapporto pari a 1,7 per la media dell’area euro e a circa 1,5 per la media dei Paesi Ocse.
La riduzione del cuneo fiscale avrebbe pertanto dovuto rappresentare un’assoluta priorità nell’agenda di Governo per promuovere la crescita. A differenza di altri provvedimenti strutturali si tratta infatti di un intervento di impatto immediato che metterebbe più soldi nella busta paga dei lavoratori o più risorse a disposizione delle aziende per investire e assumere nuovo personale. Invece finora se n’è parlato pochissimo e addirittura alcuni interventi, come ad esempio l’aumento delle aliquote per i parasubordinati, si sono mossi nella direzione opposta.
Ma quante risorse sono necessarie per un intervento significativo sul cuneo fiscale? E quale sarebbe l’impatto sul sistema contributivo?
LE RISORSE NECESSARIE
Secondo gli ultimi dati Istat (del 2011) il montante aggregato dei contributi sociali si aggira intorno ai 216 miliardi, pari al 13,6 per cento del Pil. Appare quindi evidente che un intervento di 1 miliardo (0,5 per cento del totale) ha poche probabilità di incidere sul costo del lavoro in misura significativa: anche una riduzione di mezzo punto percentuale dei contributi pensionistici richiederebbe un intervento di oltre 3 miliardi.
Per incidere in misura sostanziale su consumi, produttività del lavoro e crescita occorrerebbero maggiori risorse. Come mostra la tabella 1, una riduzione del costo del lavoro pari a 2,5 punti percentuali inizierebbe ad avere un impatto aggregato di un certo rilievo. Infatti a un lavoratore con stipendio medio intorno ai 30mila euro porterebbe 250 euro all’anno in più in busta paga, oltre a far risparmiare 500 euro al datore di lavoro.
Un’opzione particolarmente interessante per ridurre il cuneo fiscale potrebbe essere un intervento esclusivamente mirato ai lavoratori più giovani. Innanzitutto, l’intervento potrebbe essere di portata maggiore a parità di risorse poiché i contributi a carico dei lavoratori fino a 40 anni sono di circa 89 miliardi (il 41 per cento del totale). In secondo luogo, la misura potrebbe finalmente incidere in modo sostanziale sulla disoccupazione giovanile (pari al 36 per cento secondo le ultime stime Istat) e sulla “fuga dei cervelli”, ovvero i laureati più brillanti che sono sempre più propensi a trasferirsi all’estero alla ricerca di migliori opportunità. Infine, permetterebbe di massimizzare l’impatto sui consumi, visto che la propensione al consumo è maggiore per le generazioni più giovani, come documentato da alcuni recenti studi della Banca d’Italia. (1)
IL NODO DELLA COPERTURA
Il nodo rimane il finanziamento di un simile intervento. Una riduzione di 5 punti percentuali per i lavoratori con meno di 40 anni richiederebbe circa 13,7 miliardi (0,9 per cento del Pil) mentre la “terapia d’urto” di una riduzione di 10 punti percentuali (1,7 per cento del Pil), che avvicinerebbe l’Italia alla media Ocse per i lavoratori più giovani, costerebbe 27,5 miliardi. E un intervento esteso anche ai lavoratori più anziani richiederebbe 23,6 miliardi, ipotizzando un taglio di 5 punti percentuali dei contributi per i lavoratori fino a 40 anni e un taglio di 2,5 punti per quelli più anziani.
Non si tratta di cifre impossibili visto che, ad esempio, la Francia ha recentemente annunciato un intervento di 20 miliardi per favorire la competitività delle sue aziende. E se non fosse per i vincoli imposti dai mercati finanziari, dall’entità del debito pubblico e dall’Eurozona, la copertura per tali interventi potrebbe arrivare automaticamente grazie all’impatto sulla congiuntura economica e, di conseguenza, sulle entrate pubbliche. Tuttavia, nella realtà italiana di oggi è chiaro che non è una strada perseguibile.
Le vie per reperire i fondi necessari sono molteplici, a patto che l’azione di Governo assegni la giusta priorità alla riduzione del costo del lavoro. In prima battuta, alla riduzione del cuneo fiscale si potrebbero destinare le risorse recuperate con la spending review. In secondo luogo, si potrebbe utilizzare una parte dei fondi recuperati attraverso il programma di dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato (15-20 miliardi all’anno secondo una recente stima presentata dal ministro del Tesoro Vittorio Grilli) e le iniziative volte a migliorane la redditività (secondo le ultime stime un patrimonio di 700 miliardi produce attualmente un reddito inferiore all’1 per cento. (2)
Se nessuna di queste opzioni fosse sufficiente, occorrerebbero scelte più difficili. Una potrebbe essere ristabilire un principio di equità intergenerazionale attraverso un prelievo forzoso sulle pensioni attualmente erogate in misura più sproporzionata rispetto ai contributi versati durante la vita lavorativa. Occorrerebbe uno studio più approfondito, tuttavia i dati suggeriscono che esistono spazi di manovra per una strategia di questo tipo, visto che l’Italia ha una spesa pensionistica pari al 17 per cento del Pil, ovvero la più alta tra tutti i paesi Ocse. Inoltre, l’Italia spende oltre 35 miliardi (il 13 per cento del totale della spesa pensionistica) per erogare pensioni al di sopra di 3mila euro al mese, una soglia che con tutta probabilità sarebbe stata difficile da raggiungere con il sistema contributivo.
L’IMPATTO SUL SISTEMA CONTRIBUTIVO
Nel sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini una riduzione dei contributi previdenziali comporta, a parità di altri fattori, una riduzione del montante contributivo e quindi delle pensioni future.
Su questo punto si possono fare due considerazioni. La prima è che, secondo la teoria del ciclo vitale di uno dei più importanti economisti del dopoguerra, Franco Modigliani, un sistema di risparmio forzoso che preveda contributi crescenti in funzione dell’età sarebbe preferibile perché di solito le generazioni più giovani hanno maggiori vincoli di liquidità, mentre la capacità di risparmio aumenta nella fascia di età tra i 40 e i 60 anni. Quindi sarebbero auspicabili aliquote differenziate a seconda dell’età . La seconda è che la riforma Dini ha messo in stretta relazione la rivalutazione del montante contributivo e la crescita del Pil. Come mostra la tabella 2, il montante contributivo accumulato da un ipotetico lavoratore che entrasse nel mercato del lavoro nel 2012 sarebbe addirittura superiore in ipotesi di abbassamento dei contributi di 10 punti percentuali, a patto che, a parità di altre variabili, il tasso di crescita tendenziale del Pil reale contemporaneamente salisse dallo 0,5 al 3 per cento.
TABELLA 1 Fonte: Elaborazione su dati ISTAT (2011). Incremento busta paga si intende al lordo dell'IRPEF Fonte: Elaborazione illustrativa basata sul sistema contributivo della riforma Dini (rivalutazione del montante in funzione della media quinquennale del PIL nominale)
(1) Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Banca d’Italia (2010)
(2) Dato tratto da “Lo stock del debito pubblico si può abbattere con misure straordinarie?”, atti del convegno organizzato dal Cnel il 5 giugno 2012
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