A venticinque anni ho scoperto di non essere in grado di odiare nessuno. Che quel termine, odio, era usato a sproposito, perché più che altro quello che tendo a provare per la gente è una strana forma di compassione - proprio perché quel termine, odio, a mio parere contiene dentro di sé una vaga e profonda forma di rispetto. E anche perché la vita, quella poca che a venticinque anni posso dire di aver fatto, mi ha portato a scoprire che dietro le azioni apparentemente folli o malvagie di qualcuno ci sono motivi che a me non è dato sapere e che, finché non ho un quadro chiaro della situazione, non posso anteporre giudizio. E' anche il motivo che mi ha portato a odiare un termine come 'americanata', da tutti ritenuto innocuo, ma che negli ultimi tempi mi sembra contenere un razzismo molto ipocrita, proprio perché accettato dalla comunità e quindi lasciato passare come nulla. Ma anche in quel termine, americanata, è contenuto un modo di vivere e un passato non indifferente. Io non penso che tutti gli americani siano dei beoti panzoni che bevono Coca Cola mentre guardano il baseball alla tv, però posso capire che la loto storia, come paese, li ha portati a crescere in un certo modo e a farsi certe idee e, soprattutto, delle paure. Ogni paese ha la sua, ma bisogna sempre scavare a fondo per capire il perché, fermarsi al solo giudizio è limitante.
Curtis LaForche è un buon padre di famiglia che conduce una vita come tante. La sua quotidiana e tranquilla routine però viene infranta quando inizia ad avere incubi e strane visioni, che sembrano preannunciare una tempesta imminente e pericolosissima...
Take shelter (ho impiegato eoni a trovarlo perché lo confondevo sempre con Helter skelter - proprio io che odio i Beatles) è, ironicamente, una totale americanata. Ma non nel senso che è zeppa di tamarreide, esplosioni e patriottismo, ma proprio perché si fa portavoce, attraverso la metafora del protagonista, di uno stato d'animo che ha accompagnato quello strambo paese per diverso tempo. Io ci ho soggiornato per tre settimane quando avevo diciannove anni, e sono state, sia nel bene che nel male, le tre settimane più curiose e assurde della mia vita, la prova di uno stato che ha un sacco di posti pieni di luci ma anche diverse ombre che, se guardate con un occhio disabituato, ti sembrano impossibili in un luogo che si proclama il più democratico del globo. Ora però pensiamo al tempo, non quello atmosferico, anche se è in tema col film, ma a quello cronologico, e vediamo come si ripete. L'America, così come ogni altro paese, ha sempre avuto le sue paure, solo che le ha allargate. Se inizialmente potevano essere interne, come le gang dei gangster e dei nuovi migranti, col tempo ha allungato l'occhio, fino a raggiungere Cuba, la Russia e, negli ultimi tempi, l'estremo oriente. Nella sua storia recente l'America è stata un gozzoviglio di paure e pare mentali, un groviglio di nevrosi. Proprio la stessa America che ha messo le mani in mezzo mondo, creando casini a non finire e gestendo gran parte delle guerre esistenti - cari Rammstein, una canzone come Amerika è stata quantomai necessaria - dopo quel famoso undici settembre ha scoperto di non essere inattaccabile, che pure Lei poteva avere paura e che potevano ferirla da un momento all'altro. A suo modo, questo film parla proprio di questo. Non ci offre un protagonista molto particolare, è un uomo come tanti che ha una famiglia come tanti, ma è particolare la deviazione che inizia ad avere la sua mente. Il regista e sceneggiatore Jeff Nichols, autore di una piccola perla come Mud, non vuole fare dell'assolutismo, non gli interessa, oltre che per questioni di budget, mettere in scena delle sequenze mirabolanti o di particolare effetto, perché avrebbero infranto l'intento poetico - anche se è la stessa cosa che in alcuni punti fa arrancare il ritmo. L'intento del cineasta è quello di accompagnarci nella follia di Curtis attraverso la quotidianità, attraverso il progredire delle sue paranoie e l'avanzare del tempo. Perché tutti i giorni sono diversi e nessuno è uguale all'altro, e Curtis lo impara alle spese della sua provata psiche. Un lavoro che forse a una prima occhiata non sembra dare molto, ma se lo si ascolta in lingua originale, con un attore come Michael Shannon che dà il meglio di sé dai tempi di My son, my son, what have ye done, si colgono tutte quelle sfumature che un doppiaggio troppo impostato purtroppo toglie, così come a una seconda visione i vari avvenimenti assumono una loro luce più fulgida e isolante. Non si può che rimanere colpiti dall'amore di una moglie simile (devota e con le fattezze di Jessica Chastain... la perfezione!), così come dalla sua scelta verso la fine, nel rifugio, dove tutto finalmente la verità verrà rivelata in tutta la sua interezza. Take shelter si gioca tutto in quegli ultimi venti minuti, davvero intensi e carichi di una claustrofobia anche quando si è all'aperto, che ti fanno sembrare l'ansia e la psicosi del protagonista come una cappa che ti avvolge interamente. Una cosa simile solo un gran bel film riesce a farle, e questo lo è appieno. Ma è anche una piccola e profonda riflessione sull'incomunicabilità (colpo di classe la figlia muta), sul non capire le paure degli altri e, soprattutto, le nostre. Perché forse le nostre azioni sono dettate da nevrosi e manie, oppure da premeditazioni o addirittura da anticipazioni. Il tempo, sempre quello cronologico, alla fine verrà a mettere la parola definitiva su tutto.
Forse, dato tutto il clamore che ci gravava intorno, ho iniziato la visione con un hype così esagerato che non è stata appagato del tutto, ma comunque un film davvero meritevole!Voto: ★★★ ½