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Se la vicenda raccontata da Fonteyne risulta piuttosto tradizionale nella messa in scena delle emozioni, così non è per le dinamiche relazionali che il regista traduce facendo coesistere l’anomalia delle situazioni con il modo di fare scontato e la naturalezza un po’ idiota di chi si trova a viverle. E’ così per Alice chiamata a sdoppiarsi per corrispondere all’immagine del partner di turno, ed è così anche per i suoi amanti che accettano di condividere la stessa donna nonostante uno (Antonio) sia un uomo violentemente geloso e l'altro (Dominic) refrattario a qualsiasi forma di compromesso. Un carrozzone al quale appartiene di diritto anche Jean Christophe votato ad un amore passivo e rassegnato, disposto ad accettare le vessazioni e gli insulti del marito di Alice pur di portare avanti il coacervo di desideri repressi destinati ad esplodere nel rocambolesco finale. Fonteyne è bravo a sporcare il sottofondo drammatico con tocchi di non sense ed a caricare i personaggi di una goffaggine dai toni surreali che è evidente nelle postura allampanata e nello sguardo un po’ vacuo di Jean Christophe, oppure per parlare anche del contorno, nella personalità ottusa e bambinesca del suo capo, incapace di capire ciò che lo circonda. Altrettanto credibile è la resa di una condizione di marginalità che investe non solo gli ambienti, a parte quello della prigione strutturalmente separato, anche la sala da ballo volutamente dimessa, le abitazioni di periferia in cui vivono Jean Christophe ed Alice, arredate in maniera vistosa oppure dozzinale, e persino le musiche quando virano ad un vintage dal sapore provinciale. Ma come gli è solito, ai film di Fontane manca sempre qualcosa. In questo caso a dividersi le colpe sono una scrittura senza sfumature nella caratterizzazione dei personaggi ed incapace di cambiare ritmo quando si tratta di uscire fuori dall’empasse che deciderà il destino dei personaggi, e poi una mancanza generale di empatia che alla fine determina il senso di freddezza tipico dei film troppo costruiti.
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