Magazine Cinema
di Frédéric Fonteyne
con François Damiens, Sergi López, Jan Hammenecker, Anne Paulicevich
Belgio, Francia, Lussemburgo, 2012
genere, drammatico
durata, 105'
Prima di “Tango libre” il contributo cinematografico di Frederic Fonteyne almeno in Italia era fermo a due opere come “Una relazione privata”(1999) e “La donna di Giles”(2004) che da soli erano comunque in grado di delineare le preferenze di un regista particolarmente interessato a storie di amori impossibili declinati da uno sguardo tendenzialmente pessimista. Se infatti nelle prime due opere per motivi diversi le relazioni dei protagonisti erano costrette a subire le ricadute di una condivisione fuori dal comune, moralmente anticonformista e con una fine nota ancor prima di cominciare – “Una relazione privata” era l’autopsia di un rapporto già concluso e rivissuto in prospettiva nelle interviste degli ex amanti – con quest’ultimo film presentato nella sezione “orrizonti” della rassegna veneziana il romanticismo eccentrico ed un po’ malato di un menage a trois trova una variante positiva (ma non per questo meno eclatante)nella passione per il tango che fa incontrare Alice moglie di Antonio ed Amante di Dominic — compagni di cella per una rapina conclusasi con l’assassinio di un poliziotto — e Jean Christophe il secondino innamorato della donna, incontrata per caso durante una serata danzante. Una coincidenza che fa da detonatore ad una storia di passione e di gelosia che rimetterà in discussione le posizioni di partenza.
Se la vicenda raccontata da Fonteyne risulta piuttosto tradizionale nella messa in scena delle emozioni, così non è per le dinamiche relazionali che il regista traduce facendo coesistere l’anomalia delle situazioni con il modo di fare scontato e la naturalezza un po’ idiota di chi si trova a viverle. E’ così per Alice chiamata a sdoppiarsi per corrispondere all’immagine del partner di turno, ed è così anche per i suoi amanti che accettano di condividere la stessa donna nonostante uno (Antonio) sia un uomo violentemente geloso e l'altro (Dominic) refrattario a qualsiasi forma di compromesso. Un carrozzone al quale appartiene di diritto anche Jean Christophe votato ad un amore passivo e rassegnato, disposto ad accettare le vessazioni e gli insulti del marito di Alice pur di portare avanti il coacervo di desideri repressi destinati ad esplodere nel rocambolesco finale. Fonteyne è bravo a sporcare il sottofondo drammatico con tocchi di non sense ed a caricare i personaggi di una goffaggine dai toni surreali che è evidente nelle postura allampanata e nello sguardo un po’ vacuo di Jean Christophe, oppure per parlare anche del contorno, nella personalità ottusa e bambinesca del suo capo, incapace di capire ciò che lo circonda. Altrettanto credibile è la resa di una condizione di marginalità che investe non solo gli ambienti, a parte quello della prigione strutturalmente separato, anche la sala da ballo volutamente dimessa, le abitazioni di periferia in cui vivono Jean Christophe ed Alice, arredate in maniera vistosa oppure dozzinale, e persino le musiche quando virano ad un vintage dal sapore provinciale. Ma come gli è solito, ai film di Fontane manca sempre qualcosa. In questo caso a dividersi le colpe sono una scrittura senza sfumature nella caratterizzazione dei personaggi ed incapace di cambiare ritmo quando si tratta di uscire fuori dall’empasse che deciderà il destino dei personaggi, e poi una mancanza generale di empatia che alla fine determina il senso di freddezza tipico dei film troppo costruiti.
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