Magazine Diario personale

Tanto hai vinto tu

Da Romina @CodicediHodgkin

Cara Federica,

Ci siamo conosciute esattamente nove mesi fa, in occasione di una trasmissione TV. Non eri una di quelle persone che, una volta incontrate, lasciavano indifferenti. E’una questione di piglio. O ce l’hai, o non ce l’hai. Tu l’avevi, eccome. Una cazzutaggine particolare, quasi impertinente, inevitabilmente contagiosa. Sebbene foste molto diverse come approccio, era la stessa impertinente fiducia di Anna Lisa. Mi colpirono molto quella simbiosi e quella complicità con tua sorella talmente strette e palesi da pensare “magari fossero così tutte le sorelle del mondo, sicuramente sarebbe un posto migliore!”.

Alcuni giornali hanno messo nel titolo quella frase odiosa…”non ce l’ha fatta”. Ma che diavolo vuol dire che non ce l’hai fatta? Che idiozia è anche solo pensare che tu non ce l’hai fatta? Cosa vuol dire “farcela”? Qualcuno sa darmi una definizione? Chi è che ce la fa e cosa lo contraddistingue da chi non ce la fa? Solo il fatto che è vivo? La totalità dei deficienti che conosco è viva e vegeta. Eppure non direi che loro ce l’hanno fatta. Allo stesso modo, tra le persone di maggior successo umano che ho conosciuto ce ne sono alcune che, a quanto pare, “non ce l’hanno fatta”.

Farcela o meno non è una questione di essere vivi no. Farcela dipende da cosa riesci a lasciare dietro di te. Da quante vite riesci a toccare. A quante persone riesci a trasmettere, magari persino ad insegnare, qualcosa. Direi che tu ce l’hai fatta. Anna Lisa ce l’ha fatta. Tante altre persone che ho conosciuto lungo la via (Alberto, Veneranda, Linda, Vincenza e tutti gli altri) non avevano i mezzi o la capacità “tecnica” di arrivare a toccare il numero esorbitante di cuori che avete toccato voi ma ce l’hanno comunque fatta alla grande, anche se un nugolo di cellule bastarde le ha massacrate giovanissime. Tu ce l’hai fatta e non voglio sentir dire il contrario.

In treno, quel giorno, parlammo anche di quanto trovavamo entrambe fuori luogo appellativi come “guerriera”, “combattente” e cose di questo tipo, che ci siamo sentite dire spesso. Il guerriero sul campo di battaglia ci va di sua spontanea volontà. Noi ne avremmo fatto volentieri a meno. E’che a volte ci si ritrova a dover fare per forza delle cose che non avremmo immaginato nemmeno nei nostri incubi più neri. A vivere esperienze che peggio di così non potremmo immaginare. Tu questo sicuramente lo percepivi meglio di me, visto che la tua Storia è stata molto meno lineare della mia. Eppure hai affrontato la situazione con grande consapevolezza e lucidità. Hai tentato tutto il possibile. Il tuo blog lo hai intitolato “tanto vinco io” e così è stato. Non ha vinto lui. Lui figlio di puttana era e figlio di puttana è rimasto. Quella che, mentre cercava di salvarsi in tutti i modi, è riuscita nel tentativo straordinario di trasmettere a molte persone il senso della semplicità della Vita e della sua sacralità sei tu.

Spesso si tende a fraintendere il concetto di “vincere il cancro”. Qualcuno dovrebbe trovarmi una definizione anche per questo. Non è mai una vittoria piena e trionfale. C’è sempre un prezzo che si paga. Anche quando tutta la tua Vita sembra esserne uscita alla perfezione, dentro di te qualcosa…non lo so, forse si rompe e come prima non torna più. Uno dei fili che compongono le nostre fibre si scioglie e non si annoda più. E’solo uno, tutti gli altri possono anche uscirne con dei nodi ancor più stretti, ma  quel filo è il prezzo che paghi. E’la libbra di carne che Shylock esige e stavolta ottiene. La cicatrice non fisica che il cancro infligge e che torna a prudere di quando in quando. E’ quella forma di disagio che porti con te, che è solo tua e che spesso anche gli ex malati più “esposti” non condividono. Non so se ognuno ha la sua o se è più o meno la stessa per tutti noi. Ma qualcosa che torna a far male c’è. Impari a conviverci, forse, a metterla a tacere. Ma c’è. Per me è quel senso di colpa lacerante che provo verso di te, verso la tua famiglia. Verso tante madri e tante sorelle. Verso tanti figli. Specialmente ora. Perché nove mesi fa ci siamo conosciute. Nove mesi dopo tu te ne sei andata e io sto per avere una figlia. E non mi interessa quanto questo sia insensato da pensare. Non mi interessa sapere che non posso sentirmi in colpa per essere viva, ora più che mai. E’ così e basta, non cambierà. E’il mio prezzo.

E’per questo che non voglio sentir dire, né leggere che non ce l’hai fatta. Perché non ha niente a che fare con l’esser vivi o morti, non c’è alcuno stendardo da innalzare. Non c’è uno straccio di inno da cantare. Quella sarebbe arroganza. Ce la fa chi non si incattivisce, sostanzialmente. Chi decide di cambiare prospettiva. Chi cura il corpo ma fa del suo meglio perché l’anima non si ammali. Chi cura anche lo spirito se questo cede. Chi continua a guardarsi intorno anche quando dentro di sé c’è qualcosa di assolutamente totalizzante e terrificante. Chi non diventa invidioso, aggressivo, intollerante nonostante le sofferenze. Chi continua a regalarsi anche se per sé ha veramente poco in termini di tempo ed energie. Ecco perché tu ce l’hai fatta.

Sì è parlato un po’ anche di spiritualità durante quel viaggio in treno. Io non sono credente. Non credo nel “posto migliore”, nei cori di angeli, nella vita eterna e in tutto il resto. Non per questo penso di avere una visione più infelice della morte rispetto ai credenti. La stessa idea di pace che hanno loro io la provo pensando a qualcosa che è come mettersi a dormire. Andare a letto e spegnere la luce. Specialmente quando si è veramente stanchi. Oscar Wilde, nel Fantasma di Canterville, rese bene l’idea di quello che ho goffamente provato a spiegare.

E’ lo stesso fantasma di Sir Simon a spiegarlo, quando, stanco di dover penare per il castello e soffrire, spiega a Virginia cosa vorrebbe dire per lui morire.

“Caro fantasma” sussurrò Virginia “non hai ancora trovato un posto dove andare a dormire?”

“Al di là del bosco dei pini” egli rispose con voce sommessa e sognante “si trova un piccolo giardino. Lì l’erba cresce alta e rigogliosa, lì crescono le bianche gemme della cicuta e l’usignolo canta tutta la notte. Tutta la notte, canta, e la fredda luna di cristallo protegge quel giardino con lo sguardo, e il tasso tende i suoi enormi rami per proteggere chi vi si addormenta.”

Gli occhi di Virginia si riempirono di lacrime ed ella nascose il viso dietro le mani. “Stai parlando del giardino della morte” sussurrò.

“Sì, la morte. La morte deve essere così bella. Significa riposare sotto la soffice terra bruna, con l’erba che ti ondeggia sopra la testa ed ascoltare il silenzio. Non avere passato, né futuro. Dimenticare il tempo, perdonare alla vita e raggiungere finalmente la pace.”

Buonanotte, Federica…

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