Come è nostro solito partiamo, anche questa volta, alle prime luci del giorno da Bunju, cittadina periferica della popolosa e frenetica capitale economica del Tanzania, Dar es Salaam, per guadagnare un po’ di tempo.
Ci attende parecchia strada da macinare e la pioggia (così ci hanno preannunciato),quando saremo nel territorio di Ukinga,ci farà di sicuro compagnia per parecchie ore e con tutti i consueti inconvenienti del caso.
Cominciando dalle strade fangose.
Ma andare ci stimola e scaccia subito ogni eventuale e preoccupante esitazione.
Siamo un gruppo di quattro persone sull’ormai più che rodato fuoristrada della missione.
Noi tre e l’autista- giornalista-fotoreporter- interprete, che poi altri non è che il nostro “baba” Francesco. Missionario inossidabile.
E sappiamo che ci faremo buona compagnia e scacceremo la noia, allietando il tempo del lungo tragitto con canzoni, barzellette e battutacce.
E magari, quando è il momento giusto, tenteremo anche di fare qualche furtivo scatto fotografico rubato dal finestrino dell’auto in corsa.
Fermarsi e sostare sarà quasi impossibile.
Ecco,allora, che previdenti, e su suggerimento del “baba”, abbiamo portato con noi tutto quanto possa occorrere.
Ingranata la marcia giusta, dato un colpo d’acceleratore , come sempre un po’ maldestro per via del terreno scosceso, ci siamo.
E’ partenza sicura.
Man mano che ci allontaniamo dalle spiagge e dall’oceano, con le onde di continuo increspate dal vento e i suoi colori cangianti, ci rendiamo conto, mettendo a tratti il naso fuori dal finestrino, che la temperatura comincia a cambiare.
Si inizia, infatti, a salire per raggiungere gradualmente i circa 2000 metri e più della nostra destinazione finale.
La carreggiata è buona se non fosse per il diluvio, che ci investe e non ci dà tregua. Impietoso.
Il paesaggio alterna aspetti di un brullo angosciante nella fase iniziale, per poi sorprenderci, una volta arrivati sul posto, con immagini che potresti definire ti piche di un paesaggio alpino.
La zona del territorio di Ukinga (Ikonda rientra nel distretto di Nakete e nella provincia diNjombe)
è decisamente povera e molto del positivo, di cui gode oggi, lo deve alla nascita del Consolata Ikonda Hospital che, a partire dai lontani anni ’60, ha fatto da traino, perché Ikonda crescesse di numero e si popolasse, raccogliendo gli abitanti dei vicini villaggi rurali.
Il Consolata Ikonda Hospital è un altro di quei miracoli della lungimiranza e della fede nella provvidenza degli uomini e delle donne di Giuseppe Allamano.
E mi riferisco tanto ai padri e alle suore missionarie della Consolata quanto, e sopratutto, a un discreto numero di laici, ad essi molto vicini , impegnati nella realizzazione e, poi, conduzione del progetto di un luogo di cure.
E impegno in questo caso significa essenzialmente condivisione di valori umani e disponibilità di competenze professionali (dalla muratura all’idraulica, alle professioni sanitarie) nonché di aiuti economici generosi ,che sono giunti spontanei e spesso inattesi.
Il che ha consentito di creare nella zona un autentico approdo sicuro per tante persone affette da malanni.
Malanni banali (morbillo, infezioni intestinali,malaria) ma che, in Africa, non sono mai tali e per le mille note ragioni; e malanni purtroppo gravi come la tubercolosi e l’aids.
L’accoglienza all’arrivo è davvero straordinaria.
Stanchi ma sereni ci introduciamo in un ospedale che ha tutte le caratteristiche di uno modernissimo.
Proprio come quelli che possiamo incontrare in una qualsiasi delle nostre città europee.
Non manca di nulla.
Quasi certamente è il più moderno per edificio e attrezzature del Tanzania.
Quello che occorre con urgenza sono, semmai, più specialità mediche in quanto i medici,che vi fanno volontariato per un limitato periodo di tempo, non bastano per sopperire alle continue e pressanti esigenze dei malati.
E questo perché,per forza maggiore, la loro turnazione è continuata.
Il personale in pianta stabile, sia medico che infermieristico e tecnico, è invece quasi tutto africano.Tanzaniano.
Fanno, appunto, eccezione i medici volontari,in genere degli specialisti,che provengono dall’Italia.
L’ospedale, nato nel 1963, è stato completamente ristrutturato nel 2002, grazie in particolare agli aiuti degli Amici del Consolata Ikonda Hospital e alla dedizione tenace di padre Nava, missionario della Consolata e oggi responsabile in toto della struttura, che ha sempre creduto nell’importanza della realizzazione di questo progetto.
E che per esso continua a spendersi senza risparmio di tempo e di energie.
Gli abitanti che usufruiscono del servizio ospedaliero sono in tutto circa 200 mila e ogni anno, a Ikonda, nascono in media almeno1500 bambini.
Un trattamento speciale è riservato, quindi, alle madri partorienti in quanto si tiene conto dei disagi di percorribilità delle strade per raggiungere la struttura ospedaliera.
Esse sono accolte prima del parto e possono trattenersi alcuni giorni dopo, almeno fino a quando non sono in grado di fare ritorno alla propria abitazione con il neonato.
Il numero dei posti letto è adeguato(circa in numero di 300) ma andrebbe accresciuto,tenendo conto dell‘aumento della popolazione locale.
Ed esiste inoltre, a parte, un reparto specifico,che è riservato ai malati di aids.
Essi sono il 15% sul totale della popolazione. Un numero ancora troppo elevato.
L’ospedale è circondato dal verde di un ampio e curato terreno nel mezzo del quale è posta la statua del beato Giuseppe Allamano, che sorride e saluta come potrebbe fare un amico di vecchia data.
E la cosa per noi è motivo di profonda e sincera commozione al pensiero e alla constatazione “de visu” di quanto il “bene fatto bene” possa essere capace di andare e arrivare lontano.
E di donare sollievo e consolazione a chi ne ha bisogno.
Nella strada di ritorno, dopo aver ascoltato le testimonianze di chi laggiù si spende con spontanea generosità per amore di fratelli e di sorelle meno fortunati, non possiamo fare a meno di analizzare e confrontare con esse le nostre scelte di vita.
Infatti, il percorso del viaggio di rientro a Bunju è molto differente rispetto a quello dell’andata.
Probabilmente, anzi quasi certamente,saremo tutti un po’ più stanchi ed è naturale che sia così.
Ma la verità vera è un’altra.
Saremmo capaci,è quello che ciascuno domanda a se stesso, anche noi di praticare quel genere di carità autentica di cui abbiamo avuto prova e dimostrazione soltanto poche ore prima?
Ognuno risponderà a suo modo.
E a me tornano in mente le parole di un caro amico che, un giorno, mi disse senza troppi indugi che spesso quelle che sono le nostre pigrizie e, peggio ancora, le nostre indifferenze, sono solo alibi,che ci confezioniamo su misura, per eludere l’assunto fondamentale che è il nostro impegno di cristiani,capaci di saper coniugare insieme giustizia e carità.
E non sbagliava.
di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)