A Taranto è in corso una guerra, l’abbiamo raccontata mesi fa su L’Espresso: “Precari e veleni, Taranto muore“. Da una parte i Tarantini chiedono salute, dall’altra 7000 operai che vogliono lavorare. In mezzo la perizia del tribunale che prova il legame tra tumori e emissioni dell’Ilva. Agli estremi governo e Vendola se ne fregano, aspettando che si calmino le acque. Teresa, giornalista barese di 23 anni, è andata a Taranto per ascoltare gli operai.
Fermi a un blocco degli operai Ilva, Taranto
“Sappiamo che potremo avere problemi di salute, ma qui abbiamo lavoro. Così possiamo pagarci il mutuo”. Ci accolgono con queste parole gli operai dell’Ilva, quando li raggiungiamo ai cancelli dello stabilimento, oggi che hanno paralizzato la città. Quando una fabbrica della morte viene chiusa, la prima cosa che ti aspetti è vedere la città che la ospita in festa. Eppure a Taranto c’è il caos. Panico, proteste, traffico paralizzato. Perché quella fabbrica è soprattutto lavoro, e ci si paga il mutuo.
Taranto è splendida ma ha il cielo grigio. Colpo d’occhio: una distesa di fumo denso e bianco che copre l’orizzonte. E’ in giorni come questo che il ricatto occupazionale di Taranto diventa tangibile, puoi vederlo come vedi la polvere rossa che copre il ciglio della statale, oggi bloccata, la polvere delle ciminiere azzurre. Lì, nello stabilimento che un tempo era l’Italsider, ci lavora mezza Taranto. Generazioni intere di famiglie che vivono nei paesi limitrofi del brindisino.
Ieri il gip del Tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, ha disposto il sequestro senza facoltà d’uso dell’azienda siderurgica, nell’ambito dell’inchiesta sull’inquinamento ambientale. Per mesi i periti hanno prodotto la “maxi-perizia”, che ora attesta il legame tra tumori e emissioni della fabbrica. E ieri è partito anche lo sciopero degli operai, che promettono: “Se chiudono ci sarà la guerra civile”. Quindicimila lavoratori (tra dipendenti ed indotto) operano oggi in quella fabbrica, e tutta la tragicità della situazione viene fuori inesorabilmente non appena si chiede ad uno di loro perché continuare a lavorare lì, pur sapendo di potersi ammalare. “Abbiamo provato a cercare altro lavoro, ma non troviamo nulla”, dicono. “Perché penalizzare proprio l’Ilva? Le altre aziende, come l’Eni, che sono parastatali, agiscono indisturbate e inquinano quanto noi. L’Ilva stava attuando delle misure importanti contro le emissioni dannose. Noi stessi abbiamo dovuto cambiare metodi di lavoro, quindi lo sappiamo bene”.
Lo stesso rispondono, difendendo strenuamente l’azienda, se gli si chiede delle emissioni in mare visibilissime soprattutto dopo i video di denuncia degli ultimi mesi, realizzati dall’ambientalista Fabio Matacchiera. “Sapete come va per le emissioni in mare? L’Eni butta le stesse cose, anzi dovreste vederle le sostanze, quando arrivano in mare…l’acqua inizia a bollire”, continuano gli operai.
Questa è Taranto, oggi. Una città inaccessibile. Bellissima e distrutta dall’indecisione di chi ha preferito rimandare per anni. Con un’immensa fetta di popolazione a difesa di un’azienda imponente, che ha la possibilità di decidere le sorti del paese, dando lavoro a chi vota e può bloccare le strade. Nessun Tribunale potrà, ora, fermare la forza dell’Ilva al di là del fumo che esce dai camini. Perché la forza dell’Ilva sta in chi lì dentro lavora, e lo fa sapendo di poter morire. Preferendo lavorare finché si può. Tutti sapevamo che questo 26 luglio 2012 sarebbe arrivato.
Mentre cerchiamo di uscire da Taranto, bloccata da ogni parte chiediamo ai lavoratori: “Perché dai camini esce il fumo, ancora oggi?”. “Perché stiamo lavorando”, rispondono. “Questa è tutta una farsa, l’azienda non può fermarsi. Il sistema di riscaldamento non permette il blocco totale della produzione. Se blocchiamo l’attività, questa struttura ci crolla addosso”.
di Teresa Serripierro | @teresaserri
(28 luglio 2012)