Tiziana Grassi, ricercatrice e giornalista tarantina, è autrice del libro Taranto. Oltre la notte (Bari: Progedit, 2013). Il libro è una collezione di interviste e saggi, in cui studiosi, ingegneri, medici, magistrati e giornalisti riflettono sul presente, ed esprimono aspettative sul futuro, attraverso una disamina della storia e delle vicende attuali e la ricostruzione delle attività che, a vario titolo, hanno svolto per Taranto. I contributi non esibiscono soluzioni definitive, che apparirebbero inadeguate ed estemporanee, data la complessità delle vicende.
La “notte” di Taranto è il disastro ambientale e sanitario provocato dalle emissioni nocive dell’Ilva. Come è stato comprovato dalle perizie chimiche ed epidemiologiche – nonché dallo studio “Sentieri”[1] – l’attività del centro siderurgico più grande d’Europa è responsabile dell’anomalo incremento di decessi per tumori e di affezioni, soprattutto respiratorie e cardiache. Non solo. L’inquinamento – che ha colpito le terre e le acque circostanti – ha comportato la mattanza di migliaia di capi di bestiame, la chiusura di numerose aziende del settore e la distruzione di molti prodotti della pesca locale.
La “notte” di Taranto è anche la falsa contrapposizione tra diritto alla salute e diritto al lavoro, incarnata negli scontri tra cittadini e cittadini-lavoratori. Sono entrambi diritti indefettibili e costituzionalmente tutelati. Essi garantiscono all’individuo di realizzare la propria umanità.
Il percorso proposto dall’autrice cerca di guardare all’alba di giorni nuovi. Nel libro emerge la necessità di cogliere le potenzialità inespresse della città, pensando a uno sviluppo alternativo, più fedele alle inclinazioni territoriali e fondato sulla diversificazione produttiva. Partire dalla vocazione territoriale è, tuttavia, sufficiente? In altri termini, può Taranto prescindere dall’Ilva?
Il libro della Grassi stimola un’importante riflessione non solo su Taranto, ma anche sul Mezzogiorno, relativa al problema della “modernizzazione senza sviluppo”. Questa è una delle svariate formule usate per descrivere gli effetti che gli interventi di politica economica sortirono nel Mezzogiorno, a partire dalla seconda metà del XX secolo. Il Mezzogiorno doveva svilupparsi, e trasformarsi da “sfasciume pendulo” – come fu definito da Giustino Fortunato – in territorio fonte di produttività e ricchezza.
Politici ed economisti credettero fermamente nello sviluppo industriale del Mezzogiorno e decisero di attuare un’azione a due tempi. Il primo periodo, necessario alla costruzione delle infrastrutture, sarebbe stato propedeutico al secondo – la fase dell’industrializzazione ad litteram – che prevedeva l’installazione di “poli di sviluppo”, impianti dell’industria pesante e di base. Questi avrebbero dovuto sortire un effetto dinamico, innescando la creazione di un indotto composto da medie e piccole imprese. Ma i risultati sperati non furono raggiunti e i poli di sviluppo furono ribattezzati “cattedrali nel deserto” o “isole nel mare”, locuzioni che esprimevano bene l’estraneità degli interventi rispetto al territorio.[2]
Che cosa non aveva funzionato? Lo sviluppo industriale era l’unica possibilità di vero sviluppo per il Mezzogiorno negli anni Sessanta. Ma fu affidato solo all’industria di base, che si rivelò incapace di creare un proprio indotto e offrì beni intermedi che solo l’industria del Nord fu in grado di utilizzare. Si generò, quindi, una modernizzazione senza sviluppo, portatrice di benessere, ma incapace di innescare circuiti endogeni di sviluppo materiale e sociale.
Le stesse dinamiche sono osservabili su scala locale a Taranto, che diventa quindi paradigma dell’esperienza del Mezzogiorno. L’Ilva, sorta qui nel 1960, creò modernità e benessere, convogliando ingenti flussi di denaro statale e dispensando migliaia di “posti” di lavoro e redditi sicuri che ridussero drasticamente il numero dei disoccupati e invertirono la parabola migratoria.
L’industria pesante si impose quale matrice unica di crescita, mortificando la vocazione locale per il mare, il turismo, l’artigianato e il commercio, impedendo di fatto la coesistenza di circuiti di sviluppo endogeno alternativi. Questo era già avvenuto alla fine del XIX secolo, attraverso l’insediamento, nella città, dell’Arsenale militare e dei Cantieri navali Tosi.[3] A Taranto non si sviluppò un’imprenditorialità del territorio e per il territorio – nonostante qualche debole eccezione – ma un’imprenditorialità dell’industria e per l’industria, avulsa dal contesto locale e asservita agli interessi dei più forti, realizzati attraverso interventi incompatibili con l’ambiente e le potenzialità autoctone.
La rinascita di Taranto non può, però, prescindere dall’Ilva e dall’industria. Occorre risanare gli impianti al fine di abbassare le emissioni fino alle soglie consentite e tutelare, in questo modo, lavoro e salute. E sono necessari piani di diversificazione produttiva, come quelli suggeriti nel libro: il rilancio del porto come hub internazionale e dotato di una no tax area; lo sviluppo del settore turistico; la valorizzazione del patrimonio storico, soprattutto in riferimento alla tradizione marinaresca della città.
Taranto può e deve uscire dalla sua notte, ritrovando l’antico legame con la sua terra e il suo mare e ricostruendo quello con la sua fabbrica. Si deve proiettare in una visione più ampia, in cui il territorio non subisce, ma diventa spazio di costruzione sociale ed espressione dei diritti.
[1]http://www.epiprev.it/sites/default/files/EP2011Sentieri2_lr_bis.pdf
[2]L’arretratezza del Mezzogiorno, a cura di C. Perrotta e C. Sunna, Bruno Mondadori, 2012, soprattutto capp. 8-10.
[3] Campetti Loris, Ilva Connection, Manni, 2013.
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