Alessandro Puglisi 1 agosto 2013
Un’indagine sull’intricata relazione di odio e amore fra arte e industria, nel nostro bel paese: questo potrebbe essere il risultato di un tentativo di definire il volume Taranto fa l’amore a senso unico, di Gianluca Marinelli, edito da Argo nella collana A sud del Novecento. Tema di ardua collocazione, in particolar modo nell’accezione che Marinelli decide di abbracciare, quella di dare conto delle esperienze artistiche nei primi anni dell’Italsider, più nello specifico tra il 1960 e il 1975. Non stonerà l’approccio del nostro autore, agli occhi e alle orecchie di chi abbia avuto la ventura, nel senso migliore del termine, di studiare, o almeno di rendersi conto, dei fondamenti della storia culturale italiana nel ventesimo secolo. Non dovrebbe, in teoria, esserci bisogno di scomodare nomi come quelli di Adriano Olivetti, Eugenio Carmi, Enrico Mattei, figure che è possibile apparentare, in buona sostanza, solo dicendo della loro centralità nelle vicende della nostra storia recente. Per non tacere dei “cantori” della civiltà delle macchine (e non usiamo la locuzione casualmente): su tutti, riteniamo, due artisti sensibili e acuti interpreti della realtà, quali Leonardo Sinisgalli e Ottiero Ottieri. Taranto fa l’amore a senso unico è un saggio diligente, organizzato in due capitoli, rispettivamente dedicati a un inquadramento storico-culturale, e ad una rassegna, in certa parte trasversale, delle esperienze pittoriche, cinevisuali, performative, senza dimenticare una fondamentale, ancorché stringata, riflessione sul rapporto fra arte e promozione sociale. In effetti, sebbene oggi rimanga poco di quelli che definiremmo, senza remore, “bei tempi andati”, la storia delle grandi industrie italiane, e segnatamente della siderurgia, è una storia che si intreccia con un avanzamento culturale della società italiana, lanciata però, già negli anni del Miracolo, con incoscienza e inconsapevolezza, verso edonismo, individualismo acquisitivo, e anche berlusconismo, perché no.
In questo senso, Olivetti e Italsider diventano due paradigmi: e il saggio di Marinelli, studioso giovane ma, sembra, particolarmente capace di centrare la sua attenzione sugli snodi importanti, bene rende l’idea del fermento che doveva viversi, a più livelli, in tali contesti. Lo stile utilizzato è piano, regolare, tendenzialmente paratattico, e mette in ordine una materia per sua natura magmatica, sfuggente, fluida a dir poco. In un dedalo di riferimenti, all’interno del quale il rischio più importante è sempre quello di ottenere una compilazione, Marinelli si destreggia in maniera opportuna. Così, la lettura è una specie di passeggiata in quella terra caratterizzata da singolarità estreme, e raccontata, tra gli altri, da uno scrittore come Cosimo Argentina in Vicolo dell’acciaio. Nicola Carrino, Emanuele De Giorgio, Giuseppe Delle Foglie, Vittorio Del Piano, Michele Perfetti, sono nomi che presi così, sic et simpliciter, possono dire poco, quando non nulla, ma inseriti nel complesso dell’efficace ricostruzione operata da Gianluca Marinelli acquistano specificità e peso. Inoltre, costituiscono passaggi fondamentali per comprendere che se in passato sono emersi dei modelli virtuosi di circolarità tra mondo “delle macchine” e forme espressive, è stato in virtù di una felice congiuntura, in cui azione politica, tessuto sociale, predisposizione geografica, necessità comunicativa hanno collaborato, in maniera proficua, per costruire un’esperienza forse, per molti versi e a nostro profondo scorno, irripetibile.