Scintillante dicembre viennese. Caffè Ritter, uno dei caffè storici della città. Tra un mercatino di Natale e una capatina al Museo Leopold, dove si respira la nouvelle vague artistica d’inizio secolo di Shiele e Klimt, abbiamo modo d’incontrare Tarek Eltayeb, annoverato tra i maggiori scrittori contemporanei egiziani.
È stato nella città mitteleuropea per eccellenza, Trieste, che l’ho incontrato per la prima volta volta, in ottobre: era stato invitato al festival internazionale Sidaja, organizzato dalla Casa della Poesia, al quale ogni anno presenziano i poeti più rilevanti della scena europea e mondiale (quest’anno, tra gli altri, Rosaria Lo Russo, l’angloamericana Judi Benson, il portoghese Casimiro De Brito, l’islandese Sigurbiörg Thrastardóttir e il croato Branko Čegec).
Eltayeb mi è parso subito disponibile e sorridente. Ora, nel gremito caffè Ritter, parla a lungo della sua infanzia e della sua vita, senza reticenze.
Ed è proprio qui che ha scritto una delle sue poesie preferite, Acqua e caffè, di cui riportiamo la traduzione di Costanza Gruber pubblicata nel volumetto Sidaja 2007 – Incontri Internazionali di Poesia – VII edizione.
Acqua e caffè
Cento volte al giorno ripete:
«Devo tornare, qui regna l’inclemenza.
Laggiù il bene e il calore e…»
Poi tace
Gli chiedo: «laggiù, dov’è?»
Egli indica la direzione con la mano
E il suo volto perde i tratti
Poi tace
Lo prendo per mano e in un angolo tranquillo della taverna
Ci sediamo ad un tavolo
Ordino un caffè per lui, acqua per me
Gli parlo in arabo e aggiungo acqua al suo caffè
Si irrita: «Sei pazzo?»
Cerca di togliere l’acqua dal caffè
Cerca
Cerca di restituire l’acqua all’acqua.
Un’infanzia tra Steinbock, Hemingway e i racconti delle donne
Tarek racconta che suo padre aveva una biblioteca piuttosto fornita, che spaziava dagli autori classici arabi ad altri moderni ed occidentali. «Era una grande appassionato di letteratura. Quando leggeva a letto sfogliavo i libri e i giornali con lui, anche se non sapevo ancora leggere, solo per imitarlo» racconta. «Mi ero convinto non solo che li leggese, ma che fossero scritti da lui, perché, preciso com’era, aveva fatto rilegare diversi libri tascabili in cuoio e aveva munito il retro del libro con la propria firma autografa. Leggeva autori arabi classici, ma anche occidentali quali Steinbock ed Hemingway, e l’egiziano Nagib Mahfuz. Quando sono andato a scuola sapevo già leggere e scrivere, così la maestra, che si era accorta che io ero più avanti degli altri bambini, mi affidava suo figlio, un bambino iperattivo che si calmava solo quando gli raccontavo delle storie. Ma se la storia che gli avevo raccontato di lunedì era iniziata con una scimmia come protagonista, e il martedì parlavo di una giraffa, si arrabbiava e voleva riprendere la storia del giorno prima. È così che nacque, per me, l’esigenza di trascrivere le mie storie». Una serie di circostanze, insomma, che l’hanno condotto per mano nel mestiere di scrittore.
Anche le donne della famiglia sono state importanti: «Mia madre, mia nonna e mia zia si riunivano ogni pomeriggio con le vicine per cucinare. Queste riunioni tra donne erano per me l’occasione di ascoltare piccanti pettegolezzi e racconti. Quando mio padre mi diceva di andare tra gli uomini, ad ascoltare i loro discorsi di finanza e politica mi annoiavo a morte: molto più divertente ascoltare le donne!». E poi i bambini avevano un ruolo nella famiglia: «Se la nonna usciva per una commissione, per non perdersi una puntata delle serie radiofoniche, che allora duravano una settimana, dava a noi bambini il compito di ascoltarla e di raccontargliela. Ma eravamo piccoli, ognuno di noi aveva una versione diversa della storia: per cui si creavano intrecci di racconti, rielaborazioni in cui ogni bambino ci metteva del suo, che poi mi hanno segnato nella mia professione».
Dagli studi in Egitto a Vienna. Passando per l’Irak
Tarek, di origine sudanese, è nato nel 1959 al Cairo e ci ha vissuto per venticinque anni: conosce quindi piuttosto bene la realtà egiziana attuale, complici anche i suoi numerosi rientri in Egitto. Ma com’è finito nella capitale austriaca? «Sono venuto qui senza conoscere la lingua e senza soldi, a ventitrè anni. Non mi considero un poeta in esilio, perché la mia è stata una decisione libera: non c’erano sbocchi né a livello professionale né intellettuale. C’è anche da dire che all’epoca – primi anni Ottanta – c’erano dei problemi politici tra Egitto e Sudan: per il governo ero considerato sudanese, e la pressione fiscale sugli studenti non egiziani si fece molto pesante. Così dopo la laurea in economia iniziai a lavorare per uno studio di auditing, ma le mansioni che mi affidarono erano di segreteria e lo stipendio da fame».
Siamo nel 1981. Prima di andare a Vienna a specializzarsi, il giovane Tarek decide di viaggiare in un altro Paese islamico. Ma viaggiare nei Paesi islamici non era così semplice: per quanto si considerassero tutti “Paesi fratelli”, era necessario il visto. Tranne che in Irak. Così si reca da un conoscente sudanese che ha un ristorante lì. In un paesino piccolissimo e molto isolato, però. «Eravamo tagliati fuori da tutte le rotte, e il ristorante, piuttosto grande, fatturava pochissimo. Ci trovavamo di fronte ad una stazione di polizia che alle sei del pomeriggio chiudeva i battenti. Da quell’ora fino al mattino successivo le fazioni kurde e arabe combattevano a suon di spari, e noi ci trovavamo proprio in mezzo». Una situazione durissima. Dal 1978 era in corso la guerra tra Iran e Irak, e c’erano problemi a uscire dal Paese. «Tranne che per noi sudanesi, non sospettabili di coinvolgimenti con la guerra. Così il mio conoscente, avendo saputo di essere tra i pochi a poter viaggiare liberamente, si mise a commerciare in spezie e stoffe, cose che si trovavano solo negli altri Paesi. Finché un bel giorno fuggì con i soldi di alcuni clienti e non si fece più vedere: ovviamente questi se la presero con me, e fui costretto a tornare al Cairo».
È la prima volta che Eltayeb parla di queste disavventure in terra irachena e del suo sedicente amico. Ma c’è stato un qualche influsso di questa losca figura nella sua letteratura? «Non voglio che i suoi figli paghino le colpe del padre. Perciò non ne ho mai parlato finora, anche se probabilmente non mi leggerebbe. Forse, se venisse girato un film su questo periodo della mia vita, potrebbe vederlo e si riconoscerebbe. Ma per ora non è in cantiere».
A Vienna per amor d’Europa. E poi per amore
Tornato al Cairo decide di andare in Europa. Ma perché proprio a Vienna? «Non volevo fare come la maggior parte dei sudanesi, che normalmente vanno nei paesi anglofoni o francofoni. Volevo rimettermi in gioco da zero. Così inizialmente avevo pensato alla Germania, poi ho scoperto che in Austria gli studenti provenienti da Paesi considerati del terzo mondo non pagavano le tasse universitarie». Una scelta pratica, insomma, ma anche di interesse culturale. L’Europa l’aveva sempre attratto per la sua diversità culturale e per la società, molto più degli Stati Uniti dove ha l’impressione che da straniero «sia molto difficile vivere, e anche se lì mi offrissero un lavoro meglio retribuito, oggi, non mi sposterei da qui, perché lo stile di vita non mi attira e non risponde alle mie esigenze». Poi conobbe Ursula, sua moglie. «Quando ho detto a mio padre che mi sarei sposato e sarei venuto qui al nord, non mi ha ostacolato. Lui, infatti, unico figlio maschio di un padre con tredici mogli, quando è andato al Cairo per sposare mia madre era stato diseredato da mio nonno. E così non mi ha fatto passare la sua stessa odissea».
Tutti questi influssi culturali l’hanno certamente influenzato nella lingua: «La mia lingua letteraria, pur essendo arabo classico, ha una gamma di colori e sfumature che derivano dal dialetto sudanese parlato da mio padre, dall’arabo del Cairo e, naturalmente, dal tedesco, visto che vivo qui da oltre vent’anni».
Al Cairo con Nagib Mahfuz
«Un giorno di più di dieci anni fa» racconta nel suo flusso di ricordi «un amico mi propose di andare in un caffè del Cairo vicino a dove si trova la mia casa, e dove Nagib Mahfuz teneva degli incontri letterari. Dicevano che leggesse i miei racconti, ma non ci credevo granché. Quando il Premio Nobel seppe della mia presenza mi chiamò davanti a tutti vicino a lui: mi sono sentito come uno scolaretto, ero emozionatissimo. Mi ha fatto domande sulla vita in Austria, su cosa facessi, su quali fossero le differenze con la società egiziana, ed era molto interessato a conoscere i miei progetti letterari. Non aveva solo letto le mie storie: le conosceva davvero bene». Tarek si emoziona ancor oggi raccontandolo. «Ci siamo rivisti una seconda volta al Cairo, ed era passato molto tempo da quella precedente. Subito Nagib mi chiese se avessi portato qualcosa di nuovo dall’Austria. Così lessi ad alta voce dei racconti».
L’amore ai tempi della censura
Proprio Mahfuz, nel 1994, ha subito un attentato terrorista. Aveva infatti osato inserire a sorpresa alcuni profeti – Mosè, Gesù e Maometto – in un suo romanzo, Awlād hāratinā, mai pubblicato in Egitto, se non a puntate sul quotidiano del Cairo Al-Ahram (Il rione dei ragazzi, pubblicato in Italia da Pironti nel 2001) per il quale ebbe il Premio Nobel: «L’uomo che ha compiuto l’attentato» racconta Tarek «non aveva nemmeno letto il libro. Aveva solo “sentito dire” da qualcuno che il libro era pericoloso per la religione, quindi pensava che la cosa migliore fosse eliminarlo. Dopo la vittoria del Nobel è stato proposto a Mahfuz di pubblicare il libro in Egitto, ma lui ha risposto di no, perché diceva che la gente non l’avrebbe capito».
A questo punto, la domanda sulla censura in Egitto è d’obbligo: come vede la situazione attuale Eltayeb? «Si tratta di una situazione mista. Da un lato il governo è conservatore, ma anche se la censura non è così evidente, essa arriva da molte direzioni. Tutto ciò che riguarda cultura, balletto, canto è vietato perché non ha a che vedere con la religione, e anche la letteratura è un nemico da sconfiggere. Un mio racconto breve, il cui titolo è traducibile “Loro fuori di qui”, è stato censurato su un giornale egiziano. Nel racconto, in particolare, è stata censurata una scena in cui uno dei protagonisti, il vasaio straniero Jospeh, esprime la sua invidia nei confronti dell’interlocutore, un massaggiatore austriaco cieco, che ha la fortuna di toccare corpi e di avere le mani a contatto con la pelle. Un passaggio ritenuto troppo spinto sessualmente».
Ma la censura non si ferma solo agli autori di oggi: «Spesso vengono perfino modificati autori antichi. Ci sono persone che fanno ricerche sistematiche su espressioni quali “la baciò”, “la accarezzò”, “la portò a letto”, che diventano “la guardò negli occhi”, “la portò in giardino”. Quattordici anni fa, mi trovavo al Cairo, decisi di comprare i quattro volumi delle Mille e una notte. Mi diedero quattro miseri volumetti. Chiesi spiegazioni al libraio: mi disse che si trattava “della versione migliorata e depurata da tutte le immoralità e le blasfemie dell’originale”. È una situazione che si ripete ancora oggi; e gli scrittori contemporanei, ormai, sono ridotti a un ghetto, isolati dai poteri in gioco nel Paese».
Un ringraziamento particolare a Michela Zanotti per la traduzione simultanea dal tedesco
Crediti fotografici: Josiane Jefferson
Anna Castellari su poetry.cafebabel.com, 2 gennaio 2008
Questo articolo è citato nel volume I colori sotto la mia lingua. Scritture transculturali in tedesco, curato da Eva-Maria Thüne e Simona Leonardi, nel capitolo La frontiera li attraversa. Appunti sulla poesia transculturale austriacadi Barbara Pumhösel, edito da Aracne Editrice, 2009.
Filed under: Cafebabel