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Tasse ed economia sommersa (parte 3)

Creato il 25 dicembre 2011 da Davide

Nel suo ottimo articolo Social Crime Revisited (2002) il criminologo John Lea riassume la lunga storia di quello che Hobsbawm chiama per primo ‘crimine sociale’ e constata come con il sorgere e lo svilupparsi del capitalismo una serie di comportamenti sono sempre più criminalizzati, la distinzione tra criminalità e politica, normale vita sociale e crimine diventa più netta. Il crimine predatorio grave diventa l’attività di un sottomondo semiprofessionale e del sottoproletariato, ma il crimine non cessa di esistere nella società. Tuttavia, secondo quanto scrive Thomas W. Gallant  (1999)imprenditori privati della violenza come pirati, banditi (e possiamo aggiungere mafiosi) sono stati storicamente fondamentali nel portare il capitalismo e la modernità nei luoghi più lontani e arretrati, e in molti casi si sono confusi con le forze dell’ordine dello stato quando questo è finalmente arrivato. Un esempio per tutti è l’ex bandito che diventa sceriffo nella saga del West americano. A casa nostra vedrei bene in questo senso il fenomeno del pentitismo. Ma per tornare alla domanda precedente (parte 2), cosa era successo? Era successo che come sempre è accaduto nella storia, dimostra Gallant, quelli che non scendono a patti con lo stato vengono repressi, se non hanno un forte protettore esterno, oppure quando lo perdono per vari motivi. Gallant cita tra gli esempi quello dei pirati uscocchi dell’Alto Adriatico che, quando persero del tutto la loro funzione di barriera contro i turchi, vennero rapidamente mesi a posto dalla Repubblica di Venezia e dall’Impero austriaco (dicono che i chioggiotti parlano quel dialetto strano perché discendono dagli uscocchi deportati. Verità o leggenda urbana?). Citando la letteratura antropologica già vista sopra, Gallant afferma che lo stesso fenomeno è storicamente rilevabile per la Sicilia (e possiamo dire per le altre regioni capitalisticamente assai arretrate); quando arriva lo stato con l’immissione di colossali capitali della Cassa del Mezzogiorno saltano equilibri storici e chi non lo capisce e non si adegua, come la mafia stragista, nel giro di pochi anni è messa in rotta. Gli altri tentano il salto capitalista, diventano la mafia imprenditrice.
Parlando del contrabbando, ma ci stanno dentro anche parecchie altre voci criminali e in particolare i prodotti contraffatti e i prodotti dei laboratori clandestini in nero, Gillespie (2003) ha mostrato che esso comprende un certo numero di giocatori i cui interessi talvolta convergono e altre divergono. Tra questi ci sono gli imprenditori illegali stessi, aziende globali, distributori legittimi, i governi del paese ospite e di origine e il crimine organizzato coinvolto in altre imprese criminali. La cultura capitalistica e la benevola negligenza dei governi determineranno in larga parte se un’azienda vede tali offerte come un problema o come un’opportunità. In realtà il commercio illegale di sigarette, alcol e prodotti contraffatti, prostituzione e droga al minuto è stato fino a poco tempo fa, e in molti casi lo è ancora, un’attività ad una estremità di un continuum di attività illegali ed è percepita come quasi legale dai tutori dell’ordine e dai magistrati stessi. Peraltro la faida tra carabinieri e magistrati in Sicilia e magistrati e polizia a Napoli, con elementi di spicco delle forze dell’ordine che hanno sgominato i vertici della Mafia e della Camorra, messi puntualmente sotto inchiesta da magistrati legati a certe forze politiche, per ‘favoreggiamento’ delle suddette organizzazioni, pur avendone distrutto i vertici (o forse perché lo hanno fatto?), grazie ai soliti ‘pentiti’ la dice lunga sulle aree opache della questione.
La legge dello stato – e per inciso specifico che per stato intendo la forma-stato, non questo o quello stato-nazione – crea le sue controparti, zone di ambiguità e di vera e propria illegalità. Spesso i governi tollerano attività apparentemente proibite e vi è una caratteristica interpenetrazione tra legge ufficiale e attività illegale. I teorici classici vedono il crimine come un indicatore della disintegrazione delle forme tradizionali di interazione sociale, ma i moderni studiosi delle attività informali, al contrario, le descrivono come un segno di dinamismo imprenditoriale popolare, come un ‘riprendersi il potere economico’. I confini indefiniti tra legalità e illegalità non esistono solo per i poveri e gli emarginati, ma anche la classe media e i più abbienti sguazzano nelle pratiche illegali, come la cronaca non si stanca mai di confermare. Studiosi come Portes e Haller (2005) hanno dimostrato che uno dei paradossi del’economia informale è che comunemente rilascia una serie di effetti positivi per lo stato, proprio l’istituzione incaricata di sopprimerla. Infatti l’economia informale fornisce un ‘cuscino’ sociale e sopporta un sistema di welfare a basso costo e fornisce una relativa tranquillità sociale.
Un certo numero di studiosi, come quelli che scrivono nella raccolta di saggi curata da Das e Poole (2004), ha preso le distanze dall’immagine dello stato come una forma amministrativa razionalizzata di organizzazione politica che si indebolisce oppure è meno articolata ai suoi margini territoriali o sociali. Questa idea di margini è influenzata fortemente da modelli spaziali (come in Tsing 1993), cioè i margini spaziali e sociali sono visti come aree di disordine, dove lo stato non è stato in grado di imporre l’ordine. Perciò. Secondo Das e Poole (2004) un elemento chiave di questo aspetto della relazione tra lo stato e i suoi margini è il rapporto tra violenza e la funzione ordinante dello stato. Come affermano questi autori, il pensiero politico europeo ha dato allo stato sua una qualità trascendente e un monopolio della violenza, mentre l’assenza di legge e lo stato selvaggio sono immaginati risiedere al di fuori dello stato e della legge. Basta ascoltare un qualsiasi discorso del nostro presidente della repubblica per capire di cosa parlano Das e Poole. In realtà, Hobbes (1651), Locke (1660-62), Rousseau (1762) e altri filosofi illuministi si riferivano al Nordamerica indigeno appena cominciato a colonizzare immaginandolo sia come il luogo dello stato selvaggio sia un luogo primitivo idealizzato dove esisteva ‘lo stato di natura’. Così, i margini “sono simultaneamente il luogo dove la natura può essere immaginata come selvaggia e incontrollata e dove lo stato rifonda continuamente i suoi modi di ordine e legalità” (Das e Poole 2004:8)
Come per l’homo sacer descritto da Agamben, oltre il margine della legalità ci sono figure di potere sovrano, impersonate dal boss locale o da gruppi paramilitari (in più nazioni di quante posso nominarne), per esempio, che godono di una certa immunità alla legge. Per restare a casa nostra non si capisce come mai ci sono state latitanze durate decenni dove il boss era obbligato a muoversi, per controllare il proprio territorio, solo all’interno di quel ristretto territorio. All’interno di quel territorio, grazie a coperte alleanze con varie agenzie di controllo della legalità dello stato, questi boss e capi paramilitari sono figure di autorità locale che, secondo Das e Poole, rappresentano sia forme altamente personalizzate di potere privato sia la supposta autorità impersonale o neutrale dello stato. Perciò sono in grado per molto tempo di muoversi attraverso la linea che separa le forme legali e quelle extra-legali di punizione e imposizione della legge. Oltre a ciò, affermano questi autori, le pratiche dello stato in zone di emergenza o stati di eccezione non si possono comprendere in termini di legge e trasgressione, ma piuttosto in termini di pratiche che sono simultaneamente fuori e dentro la legge. In ogni modo, questi spazi di eccezione sono anche quello dove la creatività dei margini è visibile, come forme economiche alternative e azione politica e dove è istituita una pluralizzazione di autorità regolamentatrici, come Roitman (2004) ha dimostrato in modo convincente.
Roitman infatti distingue tra potere dello stato e autorità regolamentatrice dello stato e crede che questa distinzione possa spiegare il paradosso tra l’aumentata intensità di attività non regolamentate e la persistente efficacia delle infrastrutture statali. Questa persistente efficacia nega l’assunto che, a causa dell’espansione delle attività non regolamentate, lo stato ha perso il controllo, afferma la Roitman, che osserva anche che , anche se il commercio in espansione di merci non regolamentate è un fonte di libertà e potere economico, e l’autorità regolamentatrice dello stato è sfidata da queste nuove figure di autorità, queste nuove forme di potere non usurpano il potere dello stato e possono persino contribuire alla restituzione di potere statale in periodi di indebitamento e austerità attraverso la produzione di nuovi redditi e possibilità di redistribuzione. Perciò questi imprenditori non regolamentati dallo stato rappresentano, attraverso la produzione di ricchezza alla frontiera della legalità un luogo dove i tentacolari effetti del potere statale si rispiegano nella ricerca da parte dello stato di mezzi per ridistribuire e produrre nuovi bersagli di ricchezza (Roitman 2004:221). In effetti, dice Roitman, la regolamentazione statale dell’economia implica sforzi costanti per governare le frontiere della creazione di ricchezza, comprese le frontiere letterali di un paese come pure le frontiere concettuali dell’economia. La questione generale della produttività negli spazi marginali dell’economia globale, in realtà, comprende i sottotemi di come la marginalità sia centrale alla generazione di stati di potere e di come sia costitutiva della leggibilità stessa del potere.
Dal punto di vista delle classi operaie che un tempo si definivano sindacalizzate, in una situazione come quella descritta sopra, rileva Ong (2004), che ha studiato a fondo la filiera della forza lavoro cinese in diaspora, la continuità delle lotte di classe intergenerazionali e etnorazziali che avevano reso le sofferenze delle passate generazioni visibili o disponibili ad essere reclamate dalle generazioni future è stata spezzata dal confondersi dei confini tra nazioni, luoghi di produzione e storie di lavoro industriale. Gli attuali lavoratori poveri (working poor) non hanno la base materiale per lottare a favore della conservazione delle vecchie e migliori norme del lavoro, quando i loro datori di lavoro godono di maggiore flessibilità nell’assumerli come lavoratori precari, sottopagati e rimpiazzabili. Il rovesciamento della demografia della distribuzione del lavoro, con una maggioranza di persone che fanno lavoro a cottimo e in nero a casa, ha rafforzato secondo Ong, la possibilità da parte delle grandi aziende di cancellare o evadere le conquiste dei diritti civili del secolo scorso.
Tornando ai paragrafi della Parte 1, con un eccesso di tassazione che anziché diminuire aumenterà la stagflazione in atto (se qualcuno se lo ricorda la stagflazione, misto di stagnazione e inflazione, è lo spauracchio degli economisti) e la cessione di sovranità da parte dell’Italia a organismi sovranazionali, porteranno a un aumento esponenziale dell’economia sommersa e illegale anche nel Nord Italia. D’altra parte, se un imprenditore si trova di fronte alla negazione di un prestito delle banche o a tassi da usura da parte delle stesse o all’insolvenza da parte dello stato che pretende però ogni balzello subito, che scelta può fare un imprenditore, tra far sopravvivere l’aziendina con soldi di provenienza sommersa o suicidarsi, lasciando in strada familiari e amici/operai? Circa 50 hanno scelto il suicidio, ma non tutti lo faranno.
Riferimenti
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