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Tattoo: i segreti del simbolismo

Da Tabulerase

Tattoo: i segreti del simbolismo

Soavi farfalline che si trasformano in tetri pterodattili, frasi auliche ormai illeggibili e sgrammaticate, freschi  fiorellini che, avvizziti e spogli, giacciono rassegnati su una pelle ormai corrugata e vessata dal peso degli anni. Benvenuti nell’universo dei tattoo dove si intrecciano profonde dinamiche psicosociali e culturali a cavallo tra intimi convincimenti, esigenze di affermazione e di individualizzazione, bisogno di accettazione e riconoscimento sociale, brama di stabilità e di eternità. Ma quale logica si nasconde dietro un fenomeno ormai talmente diffuso da rendere paradossalmente originale e controcorrente chi decide di restarne estraneo? 

Tatuaggi terapeutici sono stati trovati  sulla mummia di Similaun risalente al 3300 a.C. ; nelle tribù primitive tatuarsi rappresentava una sorta di rito di iniziazione o di passaggio; nelle civiltà pre-cristiane e cristiane era abitudine tatuare la pelle con simboli religiosi per marcare la propria identità spirituale e distinguersi dai pagani. Ma storicamente il tatuaggio ha assunto anche un valore discriminatorio: gli schiavi romani venivano marchiati con il nome del loro padrone e, se responsabili di qualche reato, erano puniti con un marchio a fuoco sulla fronte e, a partire dal XIX secolo, il tatuaggio viene associato alla degenerazione morale e diventa il simbolo di riconoscimento dei galeotti. Ci si può chiedere, dunque, quale di questi significati possa individuarsi oggi nella pratica così diffusa di marchiare in modo indelebile la propria pelle, senza liquidare il fenomeno come banale moda. Desiderio di accettazione, integrazione e riconoscimento tra i pari: il tattoo fa tendenza, permette di identificarsi in un gruppo, essere accettato  e riconosciuto come membro in virtù di quel simbolismo che accomuna, avvicina, rende solidali e, altra faccia della medaglia, conforma. E se da un lato essere parte integrante del gruppo rassicura e protegge, dall’altro porta alla stereo tipizzazione, al sentirsi uguali agli altri pur avvertendo una profonda ed intima diversità. Emerge inevitabilmente la volontà di differenziarsi, di affermare la propria individualità, di esprimere tutta la singolarità e unicità che ci contraddistingue. Ma non si abbandona mai il proprio recinto di sicurezze e così, nel tentativo di distinguersi, ci si sofferma e si spazia ancora nell’universo dei tattoo scegliendo simbolismi sempre più bizzarri, originali, creativi, personali. Viene da chiedersi: ma non è forse col pensiero creativo, con l’originalità dei ragionamenti, con la bontà delle intuizioni, con la maturazione di un pensiero divergente che riusciamo realmente a distinguerci dalla massa e nello stesso tempo ad essere rispettati dalla stessa? Non sono forse il pensiero, la coscienza e tutto ciò che in senso lato definiamo “anima” che ci permettono  di affermare la nostra individualità? Non sono le idee, prim’ancora dei marchi, a costituire la nostra vera carta d’identità?

Non si deve però trascurare un altro fondamentale significato che il tattoo veicola: il bisogno di cristallizzare emozioni, sentimenti, ricordi, vissuti intensi per proteggerli dal lento logorio dell’abitudine  e della dimenticanza. Si spera che una frase, un simbolo, una data, una cifra marchiati in maniera indelebile sulla pelle possano consacrare all’eternità le sensazioni ed emozioni ad esse associate preservandole dall’oblio. E così si porta in superficie ciò che di più intimo e spirituale si custodisce in profondità per proteggerlo dalla precarietà che sta investendo tutti gli ambiti del vivere quotidiano: valori, ideali, famiglia, lavoro, salute, politica ed anche identità. Il grande valore di un simbolo sta nella sua capacità di rimandare ad altro amplificandone e rafforzandone il senso originario, un tentativo spesso vano ma  immediato e diretto per rendere immortale ciò che di più prezioso ci appartiene. Ma ciò che degenera e muore con il corpo difficilmente può essere consacrato all’eternità. Forse l’errore sta proprio nel considerare l’eternità come il “per sempre” mentre bisognerebbe provare a concepirla come il “senza tempo”. Ci  si renderebbe forse conto che soltanto un certo tipo di pensiero riesce realmente  a sopravvivere al tempo.


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