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Nell’export delle “worst practices” a volte siamo davvero imbattibili: “Tchao la France” è il titolo dell’ultima fatica di Corinne Maier, la nota scrittrice transalpina già autrice di “Buongiorno Pigrizia”, un bestseller di qualche anno fa. “La verità è che la Francia non funziona, è un posto fantastico per i turisti, ma non per chi ci deve vivere. Il mio consiglio è: fate come me, e come altri due milioni e mezzo di connazionali. Partite!“. Così la Maier, che nell’intervista rilasciata qualche giorno fa dipinge il ritratto di un Paese che sembra assomigliare maledettamente all’Italia: gli affitti esorbitanti, la necessità di conoscere le persone “giuste” per potersi muovere, giovani senza futuro, fallimento delle grandi scuole nella promozione sociale, una minuscola élite politica, intellettuale ed economica, che ha in mano il Paese, gestendolo tramite reti inaccessibili.
“Siamo sempre di più a partire, il numero dei francesi all’estero è triplicato in dieci anni, due milioni e mezzo di espatriati sono tantissimi se si pensa che, a differenza dell’Italia, la Francia tradizionalmente non è un Paese di emigrazione“, dichiara la Maier, fiera di poter portare ad esempio l’Italia, quale guida maestra in questo settore.
Che la Francia non sia il paradiso terrestre nessuno lo mette in dubbio: che Oltralpe sia presente qualche vizietto italico è pure fuori discussione. Ma -fatevelo dire da chi ci ha vissuto, non più tardi di tre anni fa- resta comunque un altro mondo. Che piaccia o no, si sente -forte- la presenza di uno Stato che si prende cura di te, anche se non conosci tutte le persone “giuste” per risolvere i tuoi problemi. E poi, attenzione: esistono due “France”: Parigi, e il resto del Paese. Da non confondere tra loro. I problemi della metropoli parigina possono non necessariamente essere gli stessi di Strasburgo, Rennes, Lione, ecc..
E poi inviterei la furba Maier, che in quanto a filoni un po’ provocatori ormai ci ha fatto il callo, a venire al di qua delle Alpi, anziché rifugiarsi a Bruxelles. Il titolo del suo prossimo libro potrebbe essere “Tchao l’Italie“…
E’ un Paese, il nostro, dove -ha denunciato una volta di più pure la Confartigianato- oltre il 55% dei giovani entra nel mondo del lavoro grazie a conoscenze o buoni rapporti familiari/amicali. E in questo la differenza è poca tra Nord (52,2%) e Sud (58,2%): neppure il 7% dei giovani viene assunto attraverso inserzioni, mentre è davvero minimale la quota di chi è passato per agenzie del lavoro o centri per l’impiego. Rispetto al totale delle assunzioni, le aziende hanno impiegato personale sulla base delle conoscenze nel 49,7% dei casi, una quota che supera addirittura il 53% in quelle fino a 9 dipendenti. “Selezione delle risorse umane”, questa sconosciuta…
Confartigianato si lamenta pure del fatto che -mentre tutti piangono crisi e disoccupazione- mancano alcune figure professionali, che non si trovano sul mercato del lavoro: installatori di infissi, panettieri, pasticceri, sarti, falegnami, cuochi. Ma anche qui dobbiamo intenderci ed essere franchi, con i nostri giovani: “non studiate, questo è un Paese dove il personale qualificato non serve”. E quel poco che serve, entra con altri canali, più “opachi” rispetto alla media. Occorre essere amici di, figli di, nipoti di… Siamo sinceri: l’Italia sta diventando un’altra cosa? Un Paese dove serve manodopera, e non laureati? Se è così qualcuno lo dica, spalancando definitivamente le porte dell’espatrio a chi -qui- non ha più speranze. Dopotutto l’Enfapi, l’istituto professionale dell’Unione Industriali di Bergamo, non ha probabilmente esagerato, quando ha diffuso un manifesto pubblicitario con un messaggio velato, ma nemmeno troppo, del tipo “meno studi, meglio è”. Parlavano le foto: da un lato Andrea, caporeparto con la qualifica professionale, fidanzato e felice. Dall’altro Luca, laureato, precario e “bamboccione”. E’ questo il ritratto dell’Italia che vuole avviarsi a diventare un Paese dove conta il capitale umano? Più probabilmente, a forza di prenderlo a calci nel sedere, questo capitale umano, finiremo per retrocedere in qualche “Serie B” dei Paesi sottosviluppati, come pronostica Giovanni Floris nel suo ultimo libro.
“Perché ci mandate all’estero?”, chiedeva, con una lettera aperta pubblicata su “La Repubblica Firenze”, Maria Scermino, diplomata alla Normale e vincitrice di un Dottorato di Ricerca. Maria si rivolgeva direttamente al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “L’alto numero di ricercatori, laureati e professionisti italiani che operano all’estero, perché solo all’estero trovano la dovuta gratificazione al loro lavoro, impoverisce la nostra società e deprime lo sviluppo culturale, economico e scientifico del Paese“, scriveva Maria.
Che la via sia quella di una “exit strategy” generazionale concorda pure Alessandro Rimassa, già autore di “Generazione 1000 Euro”: “Fanno benissimo ad andarsene. [...] Nella situazione attuale, drammatica, consiglio di andare all’estero e rimanerci, anche se spero che si possa migliorare il sistema per dare l’opportunità di restare in Italia“.
Ma che Paese è, dopotutto, quello in cui il posto in banca lo si ottiene per diritto ereditario? E a garantirlo non è una qualche connivente banca di un’isola sperduta del Mediterraneo, ma Unicredit, un gigante con sedi in tutta Europa… Persino il segretario della Cgil Guglielmo Epifani ha criticato la recente intesa di Unicredit sugli esuberi, che garantisce, “a parità di valutazione in sede di selezione, una priorità nell’assunzione” ai figli degli ex dipendenti. E il merito dov’é? E la parità di opportunità per tutti dov’é? Ma che siamo, il Botswana?!? E’ un Paese del G8, questo? Perché, ancora una volta, conta nascere nella famiglia giusta?
Intanto i nostri giovani, quelli nati nelle famiglie “sbagliate”, lasciano il Paese: come ha rilevato la bella inchiesta di Repubblica, condotta da Claudia Cucchiarato, il 60% se ne va per “necessità”. Il 57% di quelli censiti dall’inchiesta del quotidiano ha meno di 34 anni, il 73% ha una laurea o dottorato, due su tre sono uomini. La valigia di cartone l’hanno lasciata a casa: le loro sono riallocazioni “mirate”. L’Italia la salutano da lontano, con la manina, considerandola poco più di Terzo Mondo.
E pure le imprese se ne vanno: l’ad di Fiat Sergio Marchionne ci sta davvero pensando, come ha detto -senza usare mezzi termini- a Rai 3 domenica scorsa. Il quotidiano “La Stampa” rileva invece, in un’interessante inchiesta, come 300 aziende italiane (lombarde e piemontesi) siano già espatriate in Svizzera per produrre beni e servizi, oltre 1000 hanno lasciato il Triveneto in direzione dell’Austria, e altre 600, sempre dal Triveneto, hanno imboccato la strada della Slovenia. In tutto circa 2000, attratte da burocrazia più snella, tasse minori e -in alcuni casi- costo del lavoro inferiore.
Ma chi rimarrà qui, quando tutti avranno detto, “tchao l’Italie?“