Anna Lombroso per il Simplicissimus
Tra le molte date popolarmente rimosse collocherei anche il 20 ottobre 2007. La manifestazione unitaria della sinistra a piazza San Giovanni, un evento imponente ed emozionante per dire: ci siamo.
Non c’eravamo abbastanza. E certo era illusorio che una festa di popolo contrastasse un establishment così potente e trasversale, in vari modi e a vari livelli interessato a impoverire la cittadinanza e i diritti, tra decisionismo e autoritarismo, plebiscitarismo e monopolizzazione del processo decisionale e dell’informazione. Due forze ugualmente suicide hanno contribuito: la dissoluzione ideologica, morale, sociale e intellettuale dei partiti e la disaffezione dalla democrazia, quel disincanto tragicamente fisiologico, profetizzato e puntualmente verificatosi.
Sono notoriamente una disfattista inveterata e non ho partecipato alla generale esultanza per il governo sia nella lettura di task force tecnica e neppure in quella di coalizione di salute pubblica ambedue deprivate della presenza della “politica” intesa come scelte condivise, ricerca di soluzioni indirizzate all’interesse generale e all’equità anche come smantellamento del sistema di rendite e privilegi di posizione, come enunciato dal Presidente Monti, ma prima, si si, un bel po’ prima.
Le indiscrezioni lasciate sapientemente filtrare confermano che la mission impossibile pare sia stata affidata a degli impossibiliti: non ci si può discostare dalla linea tracciata dal precedente governo, non ci si può non adeguare alla famosa missiva inviata all’Ue dai renitenti ripetenti, non si può non dire sissignore ai 39 punti, ma al tempo stesso non si può accogliere il suggerimento di individuare forme di sostegno per soggetti deboli esclusi dal lavoro. E non si può toccare la costituzione per eliminare le province e però non si può non toccarla per “riformare” le relazioni industriali e sindacali. Non si può non reintrodurre l’Ici, che è una patrimoniale, ma, pare, non si può mica introdurre la patrimoniale. E lo stesso approccio è stato adottato fiduciosamente e remissivamente dai partiti, da Bersani che proclama spericolatamente: io vado quando Monti chiama, a Di Pietro impenitentemente dedito a pentirsi per un certo iniziale disappunto. La situazione è spinosa, meglio che a star seduto sul cactus siano i tecnici e la loro referente proverbialmente ben dotata. Così è evaporata la critica, prima di tutto quella costruttiva: stiamo ancora aspettando insieme all’epifania governativa promessa per il 5 anche la contro-lettera “ombra” dell’opposizione diversamente al governo Berlusconi, le contro- risposte ai 39 punti. Mentre possiamo attenderci i contro-referendum su nucleare e acqua pubblica e probabilmente anche sulla legge elettorale.
Certo l’assenza che accora di più è quella di quella piazza del 20 ottobre 2007. Esporta esporta democrazia, abbiamo finito per dimenticarci di importarne si vede. E il rapporto con la politica finisce per ridursi al rancoroso e bilioso estraniamento della collera contro i privilegi e gli abusi legittima per non dire doverosa, ma “povera” di contenuti e effetti. E evidentemente inadeguata, se ha prodotto una risposta francamente irrisoria: l’unico provvedimento varato nella prima riunione del Consiglio dei Ministri è stato il decreto per Roma capitale –un provvedimento di spesa che esclude il Comune di Roma dai vincoli del patto di stabilità interno e aumenta il numero di consiglieri comunali. Mentre il Senato ha sì votato l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari, ma dalla prossima legislatura. E dire che il taglio della varie indennità di cui godono i nostri rappresentanti che pesano per quasi due terzi sul loro compenso totale darebbe un forte segnale non solo simbolico e darebbe un altro senso ai sacrifici chiesti agli italiani.
Eppure ci sarebbe spazio per interventi. I costi della politica in Italia sono ingentissimi per la moltiplicazione degli enti rappresentativi e per l’esistenza vitalissima di un sottobosco esteso che di rapporti con la politica si alimenta; lo stipendio medio dei parlamentari italiani è quasi il triplo di quanto dovrebbe essere sulla base di confronti europei. I parlamentari italiani godono di benefici ignoti ai rappresentanti popolari di altri paesi: non solo una retribuzione particolarmente elevata, ma ampi sussidi (non tassabili), formalmente definiti come rimborsi ma attribuiti senza alcun giustificativo, che da soli rappresentano un cospicuo extra stipendio. Infine, mentre i lavoratori con meno di 53 anni sono già passati al sistema contributivo da 15 anni e si progetta di accelerare il passaggio al sistema contributivo anche per le coorti più anziane, i vitalizi dei nostri parlamentari continuano felicemente a essere costruiti sulla base di un generosissimo sistema retributivo.
E non vale l’argomento che le assemblee rappresentative sono sovrane nel determinare i propri compensi e i propri privilegi; è comunque il governo che ne propone l’appannaggio complessivo nelle leggi di bilancio in cui fissa le allocazioni per Camera e Senato, che dovrebbero essere obbligati a ridurre tagliare drasticamente le componenti accessorie della retribuzione. Ma soprattutto sarebbe bene ricordarsi che il costo della cattiva politica che grava di più sui cittadini è la destrutturazione della partecipazione ai processi decisionali, la fine della critica e della pro positività, lo spacciare per riforme misure emergenziali dissuasive per la crescita. Mi fa notare una illuminata amica l’assenza totale nei pronunciamenti del governo della parola cittadini, un’inquietante eclissi semantica che la dice lunga, sostituita lugubremente da contribuenti. Con buona pace di Padoa Schioppa, di bambinoni ce n’è sempre di meno e pagare le tasse è sempre meno gratificante.