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C’è una tradizione della gioventù britannica di organizzarsi in gang. Detto così sembra il titolo di un foglio scandalistico. In realtà c’è un piacere nel riconoscersi parte di un movimento, generazionale, sociale e musicale, che ha persino qualche cosa a che fare con la storia del rock. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, la cui resistenza alle truppe di Hitler fu determinante nel mantenere l’Europa una terra di libertà (almeno fino all’arrivo dei finanzieri di Wall Street), era economicamente in ginocchio. Come se non bastasse, l’Impero Britannico era di fatto giunto al capolinea, come era successo a quello Austroungarico alla fine della precedente Grande Guerra.
Negli anni cinquanta, risolti almeno i problemi di sussistenza, iniziò la ripresa che fece da volano all’ottimismo con cui le classi lavoratrici guardavano al futuro. I giovani blue collar si ritrovavano nelle balere a ballare il trad jazz, le canzoni di 78 giri di jazz ballabile a cui avrebbero pagato omaggio in futuro musicisti come Joe Jackson, che in Jumpin’ Jive ricorda le canzoni ascoltate dal padre.
Denaro a sufficienza per vestirsi con eleganza per attrarre le ragazze non ce n’era, ma non mancava la voglia per provarci. Ai ragazzi piaceva darsi un look, indossando cappotti attillati vecchia maniera sullo stile dei vecchi frock coat usati per andare a cavallo, con una predilezione per il color rosso.
All’arrivo del rock’n’roll divennero di moda jeans aderenti abbastanza corti da mostrare le calze bianche, un gilet su una camicia ben stirata e un cravattino western, mentre i capelli venivano appiccicati di brillantina con un bel ciuffo sulla fronte, pettinati sulla nuca a coda d’anatra. L’aspetto era edoardiano (dal nome del periodo di inizio secolo successivo a quello vittoriano, il regno di Edoardo VII); il titolo di un articolo del Daily Express battezzò il movimento, abbreviando Edward in Eddy e chiamando Teddy Boys i ragazzi, che già definivano sé stessi Cozy Boys, con una sorta di richiamo alla virilità cockney. Ancora più belle erano le ragazze che, soffrendo di mezzi economici persino inferiori, accomodavano abiti recuperati come giacche lunghe, gonne aderenti a tubino o pantaloni attillati da torero, capelli con il ciuffo e con la coda, mentre le scarpe erano eleganti Oxford oppure proletarie Brothel con la zeppa in gomma e scamosciate, in blu o leopardate, come le blue suede shoes di Carl Perkins.
Quella gioventù subiva il fascino dei film americani di Marlon Brando (Il Selvaggio), James Dean (Gioventù bruciata) e quel Blackboard Jungle (Il seme della violenza) che aveva imposto la canzone Rock Around The Clock di Bill Haley.
Un po’ alla volta la musica delle balere virò dai successi di Lester Young, Cab Calloway e Louis Armstrong allo skiffle di Lonnie Donegan, Dickie Bishop ed Alexis Corner fino al rockabilly di Elvis Presley, Chuck Berry, Gene Vincent, Little Richard ed Eddie Cochran.
I Teddy Boys erano la nuova generazione guardata con sospetto, e divennero definitivamente impopolari quando la stampa cominciò a puntare il dito contro i giovani che si ubriacavano e provocavano risse. L’epilogo arrivò con i giorni dei disordini di Notting Hill del 1958, scatenati dall’aggressione di alcuni teddy ai danni di una ragazza bianca di origine svedese, Majbritt Morrison, colpevole forse ai loro occhi di stare con un giamaicano di colore, che era il marito.
La Majbritt ci scrisse il libro Jungle West 11, dove afferma che la polizia anziché arrestare gli aggressori non trovò di meglio che prendersela con la vittima. Ne derivarono disordini a sfondo razziale in un quartiere ad alta concentrazione di immigrati caraibici e indiani come Notting Hill, che andarono avanti per giorni. Anche se alcuni dei protagonisti negano che dietro ci fossero motivazioni razziali, la stampa imputò la responsabilità alle gang di giovani bianchi abbigliati da teddy, il che ne rese la moda estremamente impopolare. Molti locali proibirono l’accesso ai teddy, ed il movimento si avviò a scomparire.
Negli anni sessanta il loro posto fu preso da mod e rocker.
Dei teddy boys, i mod ereditarono l’eleganza. Originari della classe lavoratrice anch’essi, nascevano nelle zone operaie di Londra in quartieri come Shepherd’s Bush. Ci tenevano ad avere un look elegante, un aspetto dandy con capelli corti, giacche a tre o a quattro bottoni, abiti di Fred Perry, pantaloni Sta-Prest (quelli attillati prodotti da Levis, che non avevano bisogno di essere stirati) che acquistavano in centro, nelle boutique di Carnaby Street e di King’s Road. Si ispiravano ai beatnik ed ai teddy boys, ma i loro gusti musicali erano molto diversi.
Mod deriva infatti da Modernism, cioè il jazz moderno, bebop, hard bop e cool jazz, da Dave Brubeck, Gerry Mulligan e Chet Baker a Miles Davis e John Coltrane, in contrasto con il trad jazz degli anni cinquanta. I loro locali più frequentati erano il Flamingo a Soho ed il Marquee in Oxford Street, dove ballavano il rhythm & blues nero della Stax e della Motown.
Sull’onda dell’ondata del Mersey Beat generata dai Beatles, arrivarono i gruppi mod: Who, Kinks, Small Faces, Spencer Davis Group e Yardbirds. I mod cercavano un riscatto alla vita quotidiana della working class nella cultura beatnik di Charlie Parker e Jack Kerouac, come nella nouvelle vague cinematografica di Jean-Luc Godard (All’ultimo respiro), Claude Chabrol, Eric Rohmer e François Truffaut, e da qui al cinema italiano d’autore di Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci. La passione per la moda italiana portò i mod a privilegiare come mezzo di trasporto le Lambretta e le Vespa, che truccavano con cromature, fanali accessori e bandierine.
Il momento atteso della settimana era il weekend, che si apriva con la frase «The weekend starts here!» (il fine settimana comincia qui) seguito dalle note di canzoni come “5-4-3-2-1” di Manfred Mann nella sigla della trasmissione Ready Steady Go! basata sui nuovi hit discografici e sui nuovi balli.
Seguiva lo struscio in centro del sabato e la lunga veglia attraverso i locali di moda a cui arrivavano a bordo delle Lambretta, proteggendosi dall’umido clima inglese con giacconi militari Parka fish-tail, su cui cucivano la coccarda bianca rossa e blu dell’aviazione britannica. Per divertirsi tutto il weekend ed ancora arrivare svegli al lavoro il lunedì mattina, era diffuso il consumo delle colorate pillole di anfetamine, che allora erano in vendita nelle farmacie.
Sulle lucenti motociclette Norton Commando e Triumph Bonneville si spostavano invece i rocker in giubbotto di pelle, che dei teddy avevano ereditato i gusti musicali, il rockabilly di Eddie Cochran (Twenty Flight Rock) e Gene Vincent (Be Bop A Lula), entrambi molto popolari in Inghilterra - dove il primo trovò la morte in un incidente automobilistico.
In Inghilterra Chuck Berry, dopo essere uscito dal carcere, conobbe negli anni sessanta il secondo periodo di successo con hit come My Ding-a-Ling e soprattutto attraverso le cover dei Rolling Stones ed i Beatles. Come On fu il primo singolo degli Stones, mentre i Beatles avevano fatto Roll Over Beethoven.
I rocker non frequentavano Soho e Carnaby Street in centro, ma piuttosto bar di periferia frequentati da camionisti, come l’Ace Cafe sulla North Circular, la tangenziale su cui improvvisavano gare urbane di velocità sui modelli di serie accessoriati come moto da corsa, che per questo presero il nome di Café Racer.
La Triumph Bonneville divenne un simbolo del rock importato anche in America: negli anni sessanta soppiantò le pesanti Match di Marlon Brando e Harley di Jerry Lee, per diventare la moto preferita di Steve McQueen, Clint Eastwood e Bob Dylan, che sulla foto di copertina di Highway 61 Revisited indossa una maglietta con la scritta Triumph.
Su una Tiger 100, che a giudicare dalle fotografie cavalcava con la grazia di un sacco di patate, Dylan subì nel 1966 il famoso incidente che lo allontanò dalle scene per anni. Joan Baez disse che Dylan non aveva mai imparato a guidarla.
Su una Bonneville si fecero fotografare Paul McCartney, Prefab Sprout, Clash e Bruce Springsteen, mentre John Lennon preferiva un chopper come quello di Easy Rider e Mick Jagger ai tempi di Exile si spostava lungo la costa azzurra a cavallo di una Honda di color verde.
Sulla rivalità indotta fra rocker e mod, e gli scontri sulle spiaggie di Brighton, Margate, Bournemouth e Clacton, ci inzuppò il pane una volta di più la stampa scandalistica inglese, ispirando film come Quadrophenia e Absolute Beginners.
Quando la scena musicale britannica si spostò verso la psichedelia della Summer of Love, seguita dalla gran parte dei mod (nel cui DNA è insita la caratteristica di essere trendy e up-to-date, cioè aggiornati e alla moda), quelli più ortodossi, gli hard mod, si spostarono verso oscuri dischi di bluebeat e ska giamaicano. Una parte di essi, specie quelli delle città del nord, quando calavano a Londra per assistere agli incontri di calcio invadevano i negozi di dischi alla ricerca degli ultimi successi di rhythm & blues che i disc jockey avrebbero suonato nelle dancing hall. Fu questo a dare al R&B il nomignolo di Northern Soul.
Dai mod più ostili presero origine gli skinhead, con i capelli tagliati cortissimi, scarponi Dr.Martens, jeans e bretelle. Nel film del 1969 Arancia Meccanica (tratto dalla novella di Anthony Burgess) il regista Stanley Kubrick immaginò bande di delinquenti giovanili che indossavano bretelle su abiti bianchi, cappello a bombetta, scarponi militari, mascara su un occhio e che parlavano uno slang derivato dal cockney e ascoltavano la musica classica di Ludwig Van Beethoven (o almeno così faceva il leader dei drughi, il protagonista Alex interpretato da Malcom McDowell).
Nel 1973 gli Who dedicarono ai mod l’opera rock Quadrophenia, che nel 1979 divenne un film, ispirando un mod revival che conobbe nuove band fra cui soprattutto i Jam (e poi gli Style Council) di Paul Weller. I mod erano affini ai punk, mentre gli antagonisti erano i redivivi Teddy Boys.
I gruppi punk introdussero nel loro repertorio cover degli Who come The Kids Are Alright e My Generation, e canzoni ska ispirandosi ai rude boys giamaicani, portando la nascita dello ska revival delle band miste (di musicisti bianchi e neri) di Specials, Selecters e Madness e di etichette come la 2 Tone.
(da Perché non lo facciamo per la strada? - Blue Bottazzi, Ciclostile TipLeCo 2014)
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