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Telesforo

Creato il 08 maggio 2010 da Renzomazzetti

TELESFOROIl signor Telesforo Coccia era un imbecille. Ma non un imbecille come tutti gli altri. Era organizzato, cosciente ed orgoglioso della sua qualità. Diceva: Sarò un imbecille, ma la cosa è così e dava un gran pugno sul tavolo. Aveva una fronte sporgente, a baule, due grandi occhi a fior di testa, il naso appiattito, le labbra tumide ed i capelli arruffati. Sembrava sempre in procinto di dare una capata contro un ostacolo, perché camminava a testa bassa ed un po’ inclinato in avanti. Da ragazzo, vedendolo sempre rannicchiato in un angolo, muto e ringhioso, il suo maestro, che di ragazzi se ne intendeva ed aveva letto il Cuore del De Amicis, che allora faceva furore, lo guardava con una certa compiacenza e diceva: Ecco Stardi! Così tutti si misero in capo che egli avesse una volontà ostinata. Quando si presentava agli esami e s’impappinava, dicevano: Poveretto, è bestia, ma ha una volontà!… Invece egli non aveva nessuna volontà, e comminava a testa bassa inclinata in avanti, solo perché la testa gli pesava. Per sua fortuna era benestante. Quando fu uomo i concittadini lo videro quasi sempre solo. Parlava poco, e quando parlava aspirava le r con un grugnito feroce e soffiava le f come se avesse voluto smorzare una torcia a vento. Questa solitudine e questo modo felino di esprimersi gli crearono attorno una certa aureola di superiorità. Finalmente si mise gli occhiali e tutto l’insieme sciatto e torvo della sua persona ne ebbe come una improvvisa nobilitazione. Il cielo non è che il cielo, ma dietro un paravento di cartone si può supporre l’infinito. Dietro quel paio di occhiali si poteva supporre uno sguardo, indice di un probabile cervello. Un giorno al caffè, ci fu chi gli disse: Dovresti farti eleggere deputato! Egli rispose No quasi urlando, e batté il bicchiere sul tavolo con tanta forza che lo ruppe. Quel bicchiere rotto fu la sua fortuna. Siccome il paese cominciava ad essere agitato da fazioni sovversive, i buoni borghesi andavano tutti a letto sognando di poter assoldare un brigante per ristabilire l’impero della legge. Il professore d’italiano del seminario dette uno schiaffo ad un ragazzo perché aveva citato in un componimento alcune parole di un libro sovversivo, certamente di V. Hugo. Quando fu dimostrato che invece erano state prese dalla Bibbia, il giornale liberale del luogo pubblicò un articolo intitolato: Difendiamo Gesù Cristo! E fu sequestrato per offese alla religione dello Stato. In quel tempo la gente per bene, vedendo passare Telesforo Coccia, diceva: Ah!… se quell’uomo lì accettasse il mandato!… Sembrava che egli avrebbe strozzato l’idea rivoluzionaria. Il prefetto della città, che era un uomo fine, riuscì a persuaderlo e arrivò fino a scrivergli il discorso. Telesforo lo lesse con tali grugniti che tutto il partito conservatore esclamò: Ecco un eroe!… Certo, se quell’uomo avesse incontrato la libertà per strada, l’avrebbe atterrata con una capata nel ventre. Alla Camera non parlò mai. Taceva, in un angolo, come a scuola, raccolta e diffidente contro tutte quelle persone che parlavano di cose sconosciute. Fedele al suo mandato, votava sempre il contrario di quello che votava l’estrema sinistra. Una volta votò pure contro il Ministero, perché il ministro aveva detto: La nostra vittoria sarà la vittoria della democrazia. Il ministro aveva mentito, ma tutti dissero che Telesforo era un uomo di carattere. Nei salotti dell’aristocrazia nera lo cercavano, e le donne lo guardavano, sorridendo con tenero orgoglio, soffiandosi il naso nei tovaglioli da tè. Che carattere! Dicevano. Un giorno il ministro si lagnava di dover cedere alle pressioni delle Camere del Lavoro, un deputato seduto presso Telesforo, biondo, ricco e blasé, mormorò: Ma resistete!… E Telesforo ripetè con un mugghio feroce: Resistete, resistete, resistete!… Tutto il settore si volse verso di lui, ed il presidente dei ministri mormorò: Ecco un uomo!… Fu così che lo nominarono ministro.

-Tratto da Storia di un imbecille di Luigi Lucatelli-

TELESFORO

CANTO D’AMORE PER STALINGRADO

Città, Stalingrado, non possiamo

giungere alle tue mura, siamo lontani.

Siamo i messicani, siamo gli araucani,

siamo i patagoni, siamo i guaranesi,

siamo gli uruguaiani, siamo i cileni,

siamo milioni di uomini.

E abbiamo altri parenti, per fortuna, nella famiglia,

eppure non siamo venuti a difenderti, madre.

Città, città di fuoco, resisti finché un giorno

arriveremo, indiani, naufraghi, a toccare le tue muraglie

con un bacio di figli che speravano d’ arrivare.

Stalingrado, non c’è un Secondo Fronte,

però non cadrai anche se il ferro e il fuoco

ti mordono giorno e notte.

Anche se muori, non morrai!

Perché gli uomini ora non hanno morte

e continuano a resistere lottando fino a dove cadono.

Finché la vittoria non sarà nelle tue mani,

anche se sono stanche, onorate e morte,

perché altre mani rosse, quando le vostre cadono,

semineranno per il mondo le ossa dei tuoi eroi,

perché il tuo seme colmi tutta la terra.

-Pablo Neruda-

 


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